M- Quale considera un valore aggiunto nella sua carriera? Sappiamo infatti che è stato autore anche di “annozero”, di “omnibus”.
G- Proprio i due che ha citato. Annozero per la ragione che ho detto prima: è la summa di quel ragionamento. Omnibus perché era una piccola nave pirata in un oceano di corazzate. Eravamo su La7 alle 7 del mattino e portare ospiti a quell’ora in una rete che faceva ascolti da prefisso telefonico della Sardegna o della Sicilia (0.70, 0.91…), è stata una grande scommessa. L’ho fatto per tanti anni, dalla nascita (2001, quando Omnibus era in pratica l’intero palinsesto della tv dei nanetti appena ribattezzata La7 dopo Tmc) al 2008, con una interruzione nel 2003. Unomattina era la corazzata contro la quale quel guscio di noce voleva misurarsi. E’ stato molto divertente e abbiamo fatto un bel lavoro, ne sono orgoglioso. Oggi che lavoro a Unomattina, però, tocco con mano la difficoltà, la complessità di un programma come questo. E la grande professionalità di tutti quelli che ci lavorano, realizzando insieme ogni giorno (ogni giorno, compreso Natale se non cade in un w.e.) un programma ricco di cose, di servizi, di ospiti, collegamenti dalle 6.45 del mattino alle 10. Vi assicuro, è molto complicato.
M- per quanto riguarda i suoi libri, cosa ci racconta sulla ragazza pakistana, Hina Salem, protagonista del suo libro?
G- Con il collega Marco Ventura (col quale lavoro adesso a Unomattina) decidemmo di raccontare la storia di Hina Saleem, la ragazza pakistana che a Sarezzo, a due passi da Brescia, fu uccisa dal padre e sepolta in giardino. Sembrava all’inizio un delitto a sfondo religioso, dove il fondamentalismo islamico aveva armato la mano assassina di un padre. Non era così, lo capimmo subito e facemmo una vera inchiesta giornalistica a tappeto. Ci recammo spesso a Brescia, parlammo con tutti i protagonisti della storia: dalla madre al fratello alle sorelle di Hina, dai magistrati ai carabinieri agli himam e i responsabili dei circoli religiosi islamici. E alla fine col padre in carcere, lo intervistammo con Marco a Ivrea e girammo l’intervista con una troupe televisiva. L’intervista divenne un capitolo del libro, poi la editai e ne ricavai 23 minuti che proposi a Monica Maggioni, oggi Presidente della Rai, allora responsabile di tv7, l’approfondimento del tg1. Lei la guardò e la mandò in onda integralmente: 23 minuti, una cosa anche rischiosa visto che era “solo” un’intervista. Invece ebbe un ottimo riscontro di pubblico e la BBC, per il canale mondiale News in the word, ci chiese dopo averla vista un pezzo dell’intervista, raccolse una battuta di Marco e una mia e mandò in onda un servizio di 5 minuti nel loro telegiornale. Una cosa importante, dicendo “per la prima volta un islamico si confessa a due giornalisti occidentali”. Era proprio così. Raccontammo tutta la storia di Hina come un romanzo, avendo come modello (inarrivabile) A sangue freddo di Truman Capote. Quello che volevamo emergesse nel racconto erano le tre ragioni per le quali quella storia doveva essere raccontata: l’integrazione dei musulmani, il rapporto padre-figli e, soprattutto, il possesso del corpo della donna. Il delitto di Hina era un delitto d’onore, perpetrato da un padre che non tollerava che la figlia vivesse a vent’anni da sola, si vestisse in maniera occidentale, non seguisse i suoi ordini. Emblematica nell’intervista al padre la risposta che ci dà alla domanda perché la seppellisce in giardino: volevo tornasse a casa. Adesso era tornata. Quello è il possesso del corpo, tu sei mia e faccio di te quello che voglio. Una barbarie presente a tutte le latitudini del globo, compresa l’Italia: le donne sfregiate con l’acido sono vittime di questo ragionamento criminale. Se la tua bellezza, il tuo corpo non saranno miei, non lo saranno di nessuno.
M- L’idea di scrivere l’opera di Falcone e Borsellino, da cosa è scaturita?
G- Nel 1996, quattro anni dopo le stragi di Palermo che raccontai dai crateri degli attentati per la radio, mi trovai a parlare con Luciano Violante, allora Presidente della commissione antimafia. Discutemmo a lungo di come Falcone e Borsellino, gli eroi nazionali che tutti chiamavano Giovanni e Paolo come fossero amici loro, in vita erano stati massacrati in tutti i modi: oltraggiati, umiliati, offesi, calunniati. E traditi dagli amici. Da tutti: giornalisti, colleghi della magistratura, politici. Allora mi venne l’idea di raccontare quelle calunnie ma non con la narrazione: con i documenti. Raccolsi articoli di giornale, dibattiti al Csm, spezzoni di interviste tv, interrogazioni parlamentari, lettere ai quotidiani che dicevano esattamente quello. Poi nel 2008 ripubblicai il libro con un documento in più: la sentenza della Cassazione sul fallito attentato all’Addaura. Nel 1989 Falcone scampò, sulla riviera di Modello, all’Addaura appunto, a un attentato con 58 candelotti di dinamite che furono scoperti e disinnescati. Si disse nemmeno a mezza voce che Falcone si era fatto l’attentato da solo per farsi pubblicità. Una cosa ignobile. Ci furono due processi e poi la Cassazione che riconobbero non solo che l’attentato era vero e fu evitato per un soffio. Ma che, scrisse la Cassazione, “Giovanni Falcone fu sottoposto a un infame linciaggio proveniente da più parti, perpetrato nel tempo e teso a svilire il lavoro del valoroso magistrato”. Lo ricordo a memoria quel passaggio. Scrissi nel libro che la mafia uccide in tre tempi: prima ti isola, poi ti delegittima e alla fine ti fa saltare in aria. Vinsi anche il premio Città di Gozzano, con Caponnetto in giuria. Nino Caponnetto più volte presentò in pubblico il libro e, come scrisse Rita Borsellino nell’introduzione alla seconda edizione, se ne portava sempre dietro una copia per dire ai ragazzi vedete? Le cose sono andate così… Da quel libro poi ricavai una lunga orazione civile per un concerto sinfonico scritto e diretto dal Maestro Stefano Fonzi. Il titolo era Il coraggio della solitudine. Il concerto girò l’Italia, soprattutto nei mattinee per le scuole. Nel 2011 la portammo nell’aula bunker del carcere de l’Ucciardone a Palermo. Il luogo dove si svolse il maxi processo contro la mafia, messo in piedi da Falcone e Borsellino. Chiesi a un grandissimo attore, Remo Girone, se poteva interpretare la voce narrante. Fu straordinario: disse di sì, lo fece gratis e venne dalla Svizzera (dove vive normalmente) per il concerto. Durante le prove mi cercò Agnese Borsellino, la vedova del magistrato. “Io sono molto malata, non posso essere con voi. Ma conosco il vostro lavoro e lo apprezzo molto. Potete ospitare i ragazzi della Fondazione Borsellino? Se domani è libero, può venirmi a trovare?”. Ammutolii, il giorno dopo in taxi raggiunsi la signora Agnese a casa sua. Al campanello c’era la targa Paolo Borsellino, magistrato. Mi fece accomodare nello studio del giudice, tra le sue cose e raccontò per due ore quei giorni. Fu un momento emozionante, indimenticabile. Uno dei momenti più intensi della mia storia professionale. Ma soprattutto umana.
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