In occasione dell’uscita del suo sesto lungometraggio “La vita in comune”, presentato a Venezia nella categoria Orizzonti, ripercorriamo la parabola artistica di Edoardo Winspeare, puntando l’attenzione sul recupero della sua opera precedente, “In grazia di Dio” del 2014.
Nato nel 1965 da nobile famiglia anglo-napoletana nella città austriaca di Klagenfurt, Edoardo Carlo Winspeare Guicciardi cresce vicino Tricase, in provincia di Lecce. Dopo i primi studi a Firenze e New York, si trasferisce a Monaco di Baviera, dove consegue il diploma in regia. Un autentico cittadino del Mondo, dunque, per di più di sangue aristocratico. Eppure, Edoardo si sentirà sempre inequivocabilmente salentino, mosso da curiosità quasi carnale verso la terra, le cultura popolare, le dinamiche umane del Meridione.
Si farà difatti singolare narratore di un Sud –meglio, di un Salento- come sospeso nel tempo ma non propriamente idilliaco, territorio di frontiera, attraversato da cicatrici ataviche e conflitti familiari, a tratti violento, testardamente ancorato alle tradizioni dinanzi all’abbattersi della modernità. Il ritmo ancestrale della pizzica e i colori di quella terra -esaltati dalla sempre splendida fotografia di Paolo Carnera- sono contrappunto e scenario della sua poetica.
Dopo alcuni cortometraggi e documentari, nel 1996 “Pizzicata” segna il debutto sulla lunga distanza. Ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale e recitato in dialetto, riscuote un buon riscontro in giro per l’Europa. Il primo vero successo di pubblico sarà però il seguente “Sangue Vivo” (2000). Ancora in dialetto, primo film italiano, tra l’altro, a conoscere la vetrina del Sundance Film Festival di Robert Redford. Con “Il miracolo”, uscito nel 2003, il regista pugliese sposta l’azione a Taranto ed esordisce al festival di Venezia, aggiudicandosi due premi minori. Del 2008 è “Galantuomini”, incentrato sull’ascesa della Sacra Corona Unita e animato da interpreti del calibro di Donatella Finocchiaro e Fabrizio Gifuni. Da ricordare la sortita attoriale del 2010, con l’apparizione in “Noi credevamo” di Mario Martone.
Negli stessi anni gira tre documentari, prima di tornare alla finzione nel 2014 con “In grazia di Dio”, apologo ecologico, riuscito affresco familiare al tempo della crisi. Prodotto ancora una volta da Saietta Film, società fondata da Winspeare nel 1999 con Gustavo Caputo, racconta di una famiglia di sarti costretti a chiudere bottega, e delle scelte sofferte, contrastate che le componenti dovranno affrontare per reinventarsi. Torneranno al podere, alla terra, volgendosi al futuro con sguardo rinnovato dalla genuinità dell’ambiente e dei rapporti. Un film al femminile, di resistenza, che trasmette calda umanità e si avvale di attori non professionisti, tra cui Celeste Casciaro e Laura Licchetta, moglie e figliastra del regista.
“In grazia di Dio” è un’opera intrinsecamente più sperimentale, coerente e coraggiosa di quanto possa sembrare: produzione home made, con location e comparse compensate (anche) mediante baratto, basso impatto ambientale e sprechi sul set ridotti al minimo. Un cinema che è realmente attivismo e rappresentazione. Presentato al Festival di Berlino nella sezione Panorama, ha ricevuto cinque candidature ai Nastri d’Argento e ha vinto il Globo d’Oro della stampa estera.
Attendiamo ora di apprezzare l’ultima fatica del cineasta salentino, “La vita in comune”, che esplora ancora i luoghi e le anime a Sud, tra ferite e riscatto. Curiosamente, un autore come Winspeare, fortemente legato alle radici per temi e stile, ha generalmente riscosso oltreconfine un successo maggiore rispetto all’Italia. D’altronde, come sosteneva Tolstoj con felice spirito glocal ante-litteram, “se vuoi essere universale, parla del tuo villaggio”.