Il presente articolo apre una serie di corte biografie di personaggi oscuri al grande pubblico ma la cui esperienza vitale meriterebbe ben altro risalto.
La vicenda di Simone Pianetti non è, invero, del tutto ignorata: negli ultimi anni, almeno nella provincia di Bergamo, essa è stata riportata alla ribalta dall’intervento dei Folkstone (noto gruppo folk-metal ndr) e dalle ricerche storiografiche di Denis Pianetti, che di Simone è pronipote (e a cui si affida largamente questo articolo).
Nato il 7 febbraio 1858 nella frazione Lavaggi (Laàac in dialetto) di Camerata Cornello, il nostro eroe era dunque un figlio della Val Brembana. Di una terra, cioè, che a causa della morfologia del territorio poco si prestava alla coltivazione e in cui, conseguentemente, la mercatura divenne endemica: zona di confine (il pizzo dei Tre Signori deve il suo nome all’appartenenza dei suoi tre versanti rispettivamente alla Repubblica Veneta, al Ducato di Milano e alla Confederazione Elvetica, cui rispondeva l’attuale provincia di Sondrio), si calcola che i 3\5 della popolazione fosse dedita ad attività commerciali. Il che, ovviamente, rendeva endemico il pericolo dei briganti, protetti dalla natura aspra del territorio. Per porre un freno alle loro scorrerie, nel medioevo fu tracciata la Via Mercatorum, un itinerario che, tenendosi a mezzacosta, toccava una serie di borghi semi fortificati sino al Passo S.Marco, ove si trovava il confine con l’Elvetia Felix.
Iniziativa imprenditoriale e violenza, dunque. Due tratti quasi innati in chiunque nascesse sulle rive del Brembo (si pensi anche a personaggi come il Pacì Paciana, Detesalvo Lupi e Galeazzo Boselli) e che contrassegneranno anche le vicende del Pianetti.
Costui (che curiosamente fu battezzato da Don Francesco Rebuzzini, che avrebbe in seguito avrebbe istruito Angelo Roncalli, più noto come Giovanni XXIII), crebbe nel paese di Camerata Cornello, adagiato lungo la costa del Cancervo e del Venturosa, in un ambiente ancora largamente selvaggio. Famiglia di contadini arricchiti i Pianetti poterono permettere al figlio una discreta istruzione, interrotta tuttavia in seguito a feroci litigi con il padre. Il giovane e bello Simone, infatti, appare in quegli anni interamente dedito “alle donne ed alla caccia di camosci”. Attività, la seconda, in cui eccelleva, tanto che ci fu chi sostenne che il suo leggendario fucile fosse un regalo di Vittorio Emanuele III per i servigi svolti come cacciatore del Re, durante il servizio militare. In ogni caso, i rapporti con il padre andavano progressivamente degenerando: si parlò addirittura di un colpo esploso dal figlio contro il genitore, dopo una discussione di eredità. Simone decise, dunque, di seguire l’esempio di molti suoi conterranei e di attraversare l’oceano per recarsi in America. Era il 1882 e per dieci anni le tracce del nostre eroe si perdono nel mito, nel solco di ricostruzioni a posteriori la cui attendibilità è di difficile valutazione. La leggenda, comunque, ricorda due avvenimenti: operaio nelle acciaierie della Pennsylvania, cioè nel centro del cosmo anarchico italiano in esilio, avrebbe conosciuto Errico Malatesta e Gaetano Bresci; dopo un matrimonio con una giovane italiana avrebbe aperto con un socio un’attività di rivendita di vino e altri viveri italiani a New York, finendo al centro di uno scontro con la mafia locale. Con il caratteraccio che gli divenne proverbiale, il nostro avrebbe rifiutato di pagare il pizzo e avrebbe malmenato il questuante, prima di correre dalla polizia a denunciare il fatto. Di lì si sarebbe dipanata una faida con la Mano Nera (nome dato in quegli anni alla mafia italiana a New York) e che, dopo la morte della moglie e del socio, avrebbe obbligato il Pianetti a tornare in Italia. Tutto ciò fu descritto da Harry Ashton-Wolfe, criminologo americano, solo in seguito ai fatti del 1914, ed è perciò difficile capire se non fosse un tentativo per sfruttare il clamore provocato dal nostro. Ma tant’è, la vox populi ha già da tempo inserito tutto questo nella leggenda. Nella Pianettiade, come fu chiamata.
Eccoci al 1892, dunque. Simone è tornato al suo paesello natale, ma i suoi compaesani faticano a riconoscerlo: se è ancora un cacciatore compulsivo e abilissimo, il giovane scapestrato è divenuto un uomo responsabile e un gran lavoratore. Tant’è che già l’hanno successivo si sposò con Carlotta Marini e, ottenuta in liquidazione dell’eredità una grande casa all’imbocco del paese, aprì una locanda, con annesse trattoria e rivendita di Sali e tabacchi. In ognuno di questi campi, egli era monopolista assoluto, a Camerata. Era l’epoca in cui il turismo scopriva la Val Brembana: gli anni d’oro di San Pellegrino, con le Terme, il Casinò, i magnifici edifici Liberty che in quel periodo avrebbero ospitato anche la famiglia reale. Già a San Giovanni Bianco, una decina di chilometri più in basso di Camerata, nel fondovalle, era arrivata la corrente elettrica. Se la maggior parte di questi villeggianti si arenavano nei maggiori centri lungo il corso del Brembo, vi erano anche molti alpinisti, cacciatori e amanti dell’avventura che si inerpicavano per le strette mulattiere che portavano ai paesi e alle frazioni di mezzacosta, più adatti per essere usati come campi base. Proprio costoro erano i clienti della locanda del Pianetti. E, con queste premesse, in un primo momento gli affari prosperarono, tanto che la domenica divenne abitudine che buona parte del paese si riunisse a bere nel suo locale. E, sotto l’influenza dei cittadini, presto iniziarono ad esservi organizzate giornate danzanti. E fu proprio questo a dare avvio al declino del nostro eroe.
La provincia di Bergamo è stata definita, nel corso del secolo scorso, “Vandea d’Italia”, “anticamera del Vaticano”, “provincia più cattolica d’Italia” ed in termini simili. Non a caso: nel 1890, con il non expedit in vigore, dei circa 29000 aventi diritto di voto solo 6000 lo esercitarono; nel 1946 l’Orobia fu una delle sole tre province del Nord (insieme a Cuneo e Padova) a scegliere la Monarchia; nel 1984, l’anno del famoso sorpasso del Partito Comunista sulla Democrazia Cristiana, a livello nazionale le elezioni europee finirono sostanzialmente in pareggio intorno al 33%, ma a livello locale la Dc vinse ancora 50-15. Tutti dati politici, ma che sottintendono una realtà culturale: tra l’Adda e l’Oglio, dalla Val di Scalve a Mozzanica, l’unica vera autorità era (ed è, sotto certi aspetti) quella della Curia e dei suoi rappresentanti locali. A Camerata Cornello, a partire dal 1904, essa fu difesa dall’energica figura di Don Camillo (sic!) Filippi, parroco del paese. Simone, a questo punto, era tornato già da dodici anni e, convinto di poter fare affidamento sul successo della locanda, era divenuto padre di cinque dei suoi sette figli.
Subito dopo l’insediamento del nuovo prevosto, iniziarono i problemi. Secondo il costume dell’epoca (ma giusto un paio di anni fa il mio paese conobbe un prete simile) egli iniziò a denunziare pubblicamente il locale del Pianetti come un luogo di perdizione, in cui dedicarsi ad alcolismo e lussuria. Simone, che come abbiamo visto era assai collerico, replicò alle accuse lasciando intravedere lo spirito anticlericale che lo animava e che egli aveva riportato attraverso l’Oceano dalle sue frequentazioni anarchiche. In breve, il rapporto degenerò: il combattivo parroco, appoggiandosi alle varie associazioni cattoliche (tra le quali si distinsero le Figlie di Maria) del paese, iniziò a impedire le domeniche danzanti; il nostro rispose indirettamente, ingiungendo al fratello Pasquale di non vendere alla parrocchia il terreno su cui avrebbe dovuto sorgere la nuova casa curiale sino a quando il curato non ebbe sborsato il cinquanta per cento in più del prezzo già concordato. Don Camillo, furibondo, lanciò l’anatema: chiunque fosse stato visto recarsi alla “taverna di Belial” sarebbe stato escluso dai sacramenti, in primis dalla comunione. Era il boicottaggio e funzionò: in breve si vide la popolazione scendere sino a San Giovanni Bianco, per rifornirsi di tabacco. Venti chilometri, pur di non incogliere nelle ire ecclesiastiche. Per Pianetti fu un duro colpo. In un primo momento, ingoiando l’orgoglio, si decise a chiedere perdono al Filippi, ma l’aspra accoglienza dello stesso lo mandò su tutte le furie. E fu allora che, per la prima volta, lo si sentì dire: ”Prima o poi me la pagherà”. Di lì a poco una serie di decisioni delle autorità politiche (particolarmente attivo fu il segretario comunale Abramo Giudici, la cui figlia Valeria era la leader delle Figlie di Maria) solidali con il parroco, Simone fu obbligato a vendere tutto e a lasciare il paese, tra lo scherno dei più attivi dei suoi avversari. La famiglia riparò dunque a San Giovanni Bianco, ove acquistò un mulino (che l’intraprendenza del Pianetti trasformò da alimentato ad acqua ad elettrico, il primo di questo tipo nella Valle) con annessa rivendita alimentare. E, di nuovo, parve che la vita potesse ricominciare nella prosperità, giacchè i profitti erano elevati. Ma la cattiva fama di Simone lo aveva seguito lungo le mulattiere. Armati del proverbio “la farina del diavolo finisce sempre in crusca”, alcuni creditori accamparono alcuni malanni, sostenendo che fosse stata l’influenza del Pianetti a farli ammalare, per non pagare. In breve tempo la voce si sparse, unita a tutte quelle che scendevano dal Cancervo, e per molti divenne certezza. Persino il medico, tale Domenico Morali, avvalorò tale tesi. In breve, il nostro fu nuovamente sul lastrico, tanto più che lo stesso Morali, chiamato a visitare il figlio Aristide per un dolore alla pancia, non riconobbe i sintomi di una pericolosa appendicite, costringendo in seguito il giovane ad un ricovero assai costoso.
La goccia che fece traboccare il vaso fu, il 12 luglio del 1914, il rinvio della sentenza sulla vertenza che divideva Simone a Nella Milesi, una contadina che per prima aveva sparsa la voce dei presunti malanni dovuti alla “farina del diavolo”. Pianetti chiedeva il pagamento del credito di 38 lire (non esattamente una miseria, per l’epoca) che egli aveva con la denunciata, che tuttavia sosteneva di dovere solo metà di quella cifra. Il giudice pacificatore Vittorio Bosio, in attesa di accertare la verità, rinviò la decisione (in seguito si scoprì che il mugnaio aveva ragione), ma per Simone la situazione era ormai disperata: senza quei soldi, non aveva di che sfamare la propria famiglia. Eppure, come ricorderà la moglie, quella sera fu assai gentile con lei e con i figli, arrivando a pagare un caffè a tutti presso l’albergo Tre Corone.
La mattina del 13 luglio 1914 Simone Pianetti si levò all’alba. Era allora un uomo di 56 anni, ma era ancora straordinariamente vigoroso. Alzatosi, indossò gli indumenti da caccia, con tanto di bandoliera con un centinaio di munizioni, e si mise la drillinga, il fucile a tre canne che si diceva avesse ricevuto dal Re, a tracolla. Si avvicinò al letto dell’ultimogenita, la sua figlia prediletta Carolina, la svegliò e la strinse teneramente. Dopodichè uscì di casa (7.30) e si diresse alla frazione Oneta, là dove nacquero lo Zanni e l’Arlecchino. Nei pressi del paese si fermò e si appostò nascosto tra i cespugli a lato del sentiero. Aspettava il dottor Morali, che era solito recarsi presso il proprio roccolo a sistemare delle faccende in previsione della stagione di caccia. Dopo circa un paio d’ore, la preda comparve. Alcune donne dissero di aver sentito una voce urlare “Te me còpet miga” (non mi ucciderai) e, subito dopo, due spari. Quando arrivarono sul posto trovare il dottore morente. Dopo la vicenda dell’appendicite, alla vista dell’esoso onorario richiesto dal medico per una diagnosi sbagliata, il nostro aveva esclamato: “A ghe la farò me la fatùra” (gliela farò io la fattura). Ora aveva mantenuto la promessa.
Da Oneta, seguendo il tracciato dell’antica Via Mercatorum, il nostro giunse in circa mezz’ora a Cornello de’Tasso, territorio ancestrale della famiglia del grande Torquato, ove stava la casa del sindaco. Costui, tuttavia, era uscito per attendere ad alcune questione, ed evitò così la mano omicida. Non furono così fortunati, invece, Abramo Giudici e sua figlia Valeria, che abbiamo già visto nelle vesti di segretario comunale complice del parroco e di leader delle Figlie di Maria. Costoro vivevano sopra il municipio, un po’ fuori dal centro del paese medievale. Il primo fu giustiziato chino sui registri comunali, che ancora oggi mostrano la macchia di sangue; la seconda ebbe il viso distrutto dalla fucilata ricevuta mentre accorreva allarmata dal primo sparo. Entrambi morirono sul colpo. Fulmineo, Simone si gettò fuori, sicuro che i colpi fossero stati uditi. Dopo pochi passi, fu alla casa di Giuseppe Ghilardi, che come giudice conciliatore aveva partecipato alla congiura contro di lui. Lo trovò intento a pranzare e lo ammazzò senza una parola. Poi, in preda all’adrenalina, ritornò celermente al centro del paese, dove nessuno aveva udito le esplosioni. Si presentò alla porta di Don Camillo, ma gli fu risposto che egli era in chiesa, a presiedere alcuni lavori. Il valente cacciatore, trovata la traccia della preda, la seguì fino alla tana. Eccolo sul sagrato, dunque: il parroco stava conversando con il messo comunale Giovanni Giupponi, anch’esso nemico del feroce mugnaio. Il nostro nascose il fucile e si avvicinò. Don Filippi lo apostrofò irrisorio:” Lei qui, Pianetti? Miracolo!”. Simone sorrise, accennò un inchino con il capo e rispose: “La riverisco signor Parroco. Sal miga cosa ‘l ma facc lù?” (Perché, lei non sa cosa mi ha fatto?). In un attimo la drillinga apparve tra le mani e il prete cadde, colpito allo stomaco. Giupponi ebbe appena in tempo di girarsi prima di venir fulminato alle spalle.
Le vittime, a questo punto, erano già sei. Simone, prima di partire aveva scritto una lista di dodici nomi, ma alcune (come il sindaco) non furono trovate. Il tempo stringeva, il cacciatore percepiva l’urgenza di compiere l’ultimo attimo della sua vendetta, prima di trovarsi braccato. Lasciò dunque il paese ove la sua ira aveva inflitto “infiniti lutti”, toccando l’apice del climax nell’uccisione di Don Camillo dinanzi alla chiesa. Ma non era finita. V’era un ultimo conto da saldare e 38 lire da riscuotere. Da Cornello si diresse verso la frazione di Cantalto, ove viveva Nella Milesi. La trovò in compagnia del giovanissimo nipote Bepo. La donna arretrò verso l’angolo, in preda al panico, ma non c’era alcuna via di scampo. Pianetti sparò un’ultima volta e il Dies Irae ebbe fine. Era mezzogiorno del 14 luglio. Da quel momento egli era un fuggiasco.
La sua astuta mossa fu quella di dirigersi verso le balze del Cancervo e del Venturosa, un vero labirinto per chiunque, come lui, non le avesse percosse da una vita alla caccia di caprioli. A valle si organizzò una caccia all’uomo in grande stile: in pochi giorni 300 carabinieri iniziarono a battere le montagne alla sua ricerca, coadiuvati da numerosi borghesi e da un reparto di alpini. Nei primi tempi si ebbe qualche avvistamento, ed anche qualche scontro a fuoco, ma il fuggitivo era protetto, per forza o per amore (ma più per il secondo) dai pastori e dai malgari, che lo accoglievano nello loro malghe sparse su un territorio ampissimo, scosceso e di difficile percorrenza. Due di loro furono anche condannati per favoreggiamento, ma a nulla valse: Pianetti continuava, nonostante tutte le assicurazioni, ad essere uccel di bosco. Inoltre, a valle, superato il trauma della carneficina, molti iniziarono a vedere in lui un eroe, un liberatore. Un piccolo Robin Hood. Sulle mura di alcuni villaggi apparvero scritte inneggianti al mugnaio. La più celebre recitava: “W Pianetti. Ce ne vorrebbe uno in ogni paese” (è tutt’ora il motto degli anarchici orobici).
Dopo più di due settimane di ricerche infruttuose, in cui era emerso chiaramente come il nostro fosse in grado di nascondersi sotto il naso delle pattuglie per poi sbucare appena esse giravano le spalle, il 29 luglio Nino Pianetti, figlio primogenito di Simone, fu autorizzato dal comando dei carabinieri a recarsi in montagna, latore di diverse lettere di amici e parenti dell’assassino che lo invitavano a costituirsi. Fu l’ultima volta che qualcuno vide Pianetti. Dopo aver pianto a lungo, affidò al proprio erede una lettera per la moglie e aggiunse una profezia che si sarebbe rivelata esatta “Non mi troveranno mai, né vivo né morto”.
Nessuno sa dove finì Simone Pianetti. Ci furono valligiani che asserirono di averlo incontrato a Ciudad Bolivar, in Venezuela, e di avergli sentito raccontare di essere sfuggito alla cattura grazie alla connivenza di alcuni personaggi importanti di Bergamo, che ritenevano troppo pericoloso arrestare un personaggio tanto popolare e amico del Re; altri sostennero che fosse passato in svizzera e che fosse poi tornato in tarda età, nel 1943, per finire i suoi giorni nella casa di Nino a Milano; altri ancora fecero notare che se egli fosse morto cadendo, accidentalmente o volontariamente, nei profondi dirupi che caratterizzano la zona difficilmente sarebbe stato trovato.
Al di là della Storia, l’unica degna conclusione della Pianettiade, nata nelle stalle della valle, è quella che narra che lo spirito del mugnaio vaghi ancora tra le rocce del Cancervo, pronto a scaricare la propria drillinga addosso ai prepotenti.