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Pacì Paciana: il brigante che divenne Signore della Valle.

Antefatti.

Vincenzo Pacchiana detto Pacì Paciana nacque a Grumello de’Zanchi, in val Brembana, il 20 dicembre del 1773.
Da quattrocento anni, le terre bergamasche costituivano la più fedele provincia veneta. Il Leone, seppur agonizzante, non era ancora caduto, e ricompensava la dedizione orobica con esenzioni fiscali e una larga autonomia. La valle era governata da un Podestà veneto coadiuvato da un consiglio. Entrambi, segno tangibile della benevolenza della Serenissima, erano eletti in loco.
Il nostro crebbe in questo mondo e, nel 1793, divenne un “birro” della Dominante, con il compito di mantenere l’ordine nella zona.
Egli, tuttavia, divenne in fretta famoso per due cose: l’attitudine a risolvere le vertenze pragmaticamente, cioè a sberle; per l’assidua frequentazione di una taverna di Ambria, noto luogo di ricettazione. Peraltro, la proprietaria dell’osteria era la sua amante.

Nel 1796 gli echi europei iniziarono a risuonare anche nei paesini montani: i Francesi avevano sconfitto gli Austriaci e stavano entrando a Milano. Venezia, secondo prassi consolidata, si era dichiarata neutrale, concedendo ad entrambi i contendenti libero accesso allo Stato da Tera. A Natale i soldati di Napoleone entrarono a Bergamo senza opposizione, e subito iniziarono a tramare contro il loro ospite. A marzo, un piccolo gruppo di cittadini, appoggiati dalle baionette d’oltralpe, proclamò la Repubblica Bergamasca. Alla notizia, le Valli insorsero nel nome di S.Marco. Seguirono scontri (e un paio di volte i transalpini dovettero ritirarsi) e saccheggi e condanne a morte.

Agente della Serenissima.

A Venezia si resero conto che intervenire militarmente sarebbe stato un suicidio: Napoleone non aspettava altro che un pretesto per dichiarare guerra alla Repubblica. Bisognava interferire con gli eventi in corso indirettamente. Si scelse dunque di trovare qualcuno che facesse gli interessi dello Stato, ma senza che fosse possibile collegarlo alla città lagunare. La scelta cadde sul nostro Pacchiana. Per mistificare, egli fu formalmente ricercato per furto. Agli occhi di un estraneo egli, condannato dai veneziani, non poteva certo agire in loro nome.

In valle le schermaglie continuavano. A Clusone i rivoltosi abbatterono l’Albero della Libertà, simbolo della Rivoluzione Francese. Vincenzo ed altri come lui aizzavano le folle, partecipavano a sparatorie e, soprattutto, tenevano il Leone informato di ciò che accadeva in loco.

Infine, dopo aver subito una dura sconfitta contro i montanari della valle Imagna, i francesi passarono al contrattacco: massacrarono i seriani, saccheggiarono Nese e Nembro, condannarono a morte 11 persone a Clusone, invasero e pacificarono prima la val Imagna, poi la Brembana. Nel frattempo, Venezia stessa era caduta nelle grinfie del “liberatore d’Italia”. Tutto era perduto.

Il nostro, che nel frattempo iniziava ad essere conosciuto con il soprannome di Pacì Paciana, si ritirò a vita privata. Aprì un’osteria a Zogno. Qui smerciava anche il tabacco di contrabbando che egli si procurava oltre all’allora vicino confine elvetico (la Valtellina era parte dei Grigioni). Ma non sarebbe durata.

La breve carriera come oste.

Una sera giunsero alla locanda due viandanti. Presa una stanza, chiesero al Pacì se fosse possibile essere svegliati all’alba e che, quando ciò fosse accaduto, si dicesse loro l’ora, per potersi organizzare.
Il nostro rispose che sì, certo, se non li avesse sentiti alzarsi avrebbe provveduto. Quanto all’ora, prendessero pure in prestito l’orologio di suo padre.
Al mattino, i due si alzarono da soli. Il Pacì li sentì e si levò a sua volta per aprir loro la porta e versare una grappa di commiato. Ma, giunto nel salone, notò che i due erano già partiti. Colto dal sospetto, corse nella camera che essi avevano occupato. Dell’Orologio nessuna traccia. Affacciatosi all’uscio, vide i furfanti attraversare il ponte sul Brembo, poco lontano. Subito si lanciò all’inseguimento. Raggiuntili, afferrò uno dei due, mentre l’altro fuggiva. Il prigioniero cercò di negare il furto, ma il nostro lo sollevò, lo sporse al di fuori del parapetto e gli intimò di scegliere: o tirava fuori l’orologio, o cadeva nel fiume. Ovviamente, riottenne il maltolto. Convinto che la questione fosse chiusa, tornò al lavoro. Ma gli altri, appena lo videro sparire, corsero a denunciarlo per furto e aggressione al comando di San Giovanni Bianco. Ai Francesi non parve vero di poter arrestare quel piantagrane che, tutti lo sapevano, era pure contrabbandiere.

Inizio del brigantaggio.

Giudicato colpevole, il nostro dovette passare un anno in carcere. Quando uscì, trovò le autorità del paese schierate contro di lui: ogni furto era una sua responsabilità, ogni aggressione portava, secondo loro, la sua firma. Era, insomma, impossibile vivere in pace. Fu a questo punto che Vincenzo abbandonò il suo nome per assumere definitivamente quello di Pacì Paciana, brigante. Per guadagnarsi il pane iniziò a rapire e taglieggiare i maggiorenti della zona.
La valle si spaccò: da un lato il popolo, con cui egli divideva (sicuramente per interesse) i proventi delle sue azioni criminose; dall’altra i signori (i sciori, in dialetto locale) che temevano per la loro sicurezza e il loro denaro. In mezzo, cioè divisi equamente tra i due schieramenti, stavano i preti. Alcuni di loro vedevano il bene che il nostro faceva e come egli si prendesse cura di persone altrimenti destinate a morte certa. Altri sottolineavano che il furto è un peccato. Tra questi spiccava soprattutto il parroco di Sedrina Alta, a cui avrebbe rubato, e diviso con la popolazione affamata, il denaro necessario alla ristrutturazione della chiesa.

Il ponte di Sedrina.

Proprio legata a quell’episodio è una delle più famose leggende sul Pacì: dopo essere stato derubato, il prete si sarebbe affacciato alla finestra urlando. Così facendo avrebbe messo in allarme i gendarmi del paese, che avrebbero preso ad inseguire il nostro, che fuggiva verso il fondovalle. L’unico modo per passare sull’altro versante era il ponte di Sedrina, alto quasi trenta metri. Giuntovi, Vincenzo si sarebbe trovato la strada sbarrata da un’altra pattuglia, che passava di lì per caso. Era in trappola. Il comandante degli inseguitori, vedendo la scena, avrebbe esclamato:”Signor Pacchiana, anche le vecchie volpi si prendono”. Al che Vincenzo avrebbe risposto “Ma mia de chèsto pil” (Ma non di questo pelo) e si sarebbe temerariamente tuffato nel fiume sottostante, salvandosi e allontanandosi a nuoto.

Fuga a Venezia e riorganizzazione.

Nel frattempo, il cerchio intorno a lui si stava chiudendo. Egli decise di allontanarsi per un po’. Si diresse a Venezia, che era divenuta territorio asburgico e che era quindi fuori dalla giurisdizione francese. Era il 1802. Visse nella laguna per due anni, godendosi il frutto di tante rapine. Qui si procurò anche uno dei suoi tratti tipici: una specie di giubbotto antiproiettile rudimentale. Tutte le fonti dell’epoca ce ne parlano: sotto la giacca egli indossava uno strato che impediva ai proiettili di colpirlo. Infine, i soldi finirono ed egli, molto meglio organizzato, tornò in patria. Durante la sua assenza aveva mantenuto alcuni contatti, ed era riuscito a riunire un gruppo di uomini sotto la sua bandiera, a metà tra una forza militare ed una banda di rapinatori. Una cosa alla Jesse James, insomma. Tra di loro spiccava tal Nicola di Endenna, che era un amico fraterno del Pacì sin dall’infanzia.

Il ritorno: bandito, giudice ed amministratore.

Nel 1805 tornò dunque in valle, meglio armato e supportato. In breve, la sua divenne l’unica vera autorità, in alcuni paesi. Una nota storia lo vede accerchiato dal popolo che gli chiede un giudizio su questioni d’eredità, di furto, famigliari ecc. Il brigante era diventato anche giudice di pace e amministratore!
A Bergamo, i funzionari del neonato Regno d’Italia napoleonico si resero conto che non si poteva più far finta di niente. Bisognava impegnarsi a fondo per catturare il Pacì Paciana. Fu emessa dunque una taglia su di lui che prometteva cento zecchini d’oro a colui che lo avesse catturato vivo e sessanta a chi lo avesse consegnato morto. In più, se colui che lo avesse segnalato alle autorità fosse stato un fuorilegge, egli sarebbe stato automaticamente graziato. Era un premio allettante, ma in valle nessun amico del Pacì cercò di guadagnarselo. Il commissario Salvi decise dunque di usare la forza: rimosso il vecchio maresciallo dei gendarmi di Zogno, che pare fosse in combutta con il nostro, ne nominò un altro e gli garantì ampi rinforzi.

La reazione delle autorità e lo scontro in valle.

In breve, tutta la valle era in armi. I due schieramenti combattevano l’uno contro l’altro e Vincenzo era il perno della lotta: come una nuova Elena, la sua consegna avrebbe immediatamente messo fine alle violenze. Ma il popolo non voleva saperne. Ci furono numerosi scontri a fuoco: il Pacì stesso fu accusato di essere l’uccisore materiale di quattro gendarmi e di averne feriti di altri due. La sua banda, beneficiata dall’appoggio della popolazione, sfuggiva continuamente alla cattura. Le autorità cittadine decisero dunque di fargli terra bruciata intorno: chiunque venisse sospettato di aver ospitato o favorito il Pacchiana veniva arrestato e condannato. A lungo andare, la solidarietà del popolo venne scalfita. Alcuni dei compagni del nostro vennero arrestati. A complicare ulteriormente la situazione ci pensò una vipera che, nell’estate del 1806, lo morse ad una gamba. Salvato dall’intervento del fido Nicola, egli non era però in grado di gestire la convalescenza continuando a lottare. Decise dunque di allontanarsi di nuovo, fino alla guarigione. Valicate faticosamente le Orobie, passò in Valtellina e giunse nei pressi di Como.

La morte.

Qui trovò un brigante di origine meridionale di nome Carcino. Questi aveva in precedenza operato in val Seriana, ed era quindi conosciuto al Pacì. I due operarono per qualche mese assieme, taglieggiando alcuni signorotti della zona. In seguito, si ritirarono in un nascondiglio a godersi il malloppo e alternandosi nei turni di guardia. Era ciò che il Carcino aspettava: fingendosi amico del nostro aveva messo a segno dei colpi assai redditizzi, e che sarebbero stati cancellati quando avesse consegnato il corpo alle autorità. Una notte, mentre Vincenzo dormiva, il traditore lo pugnalò a morte. Dopodichè, mozzò il capo del cadavere e lo portò a Bergamo. Ottenne, come previsto, amnistia e ricompensa. La testa del Pacì fu esposta in Città Alta, dove avvenivano abitualmente le esecuzioni (la Fara, per chi conosca il capoluogo orobico). Era una fine ingloriosa, per un uomo capace di beffare la legge per un decennio). Era l’8 agosto del 1806.

L’eredità del Pacì Paciana.

Dopo la morte, la vita del Pacì divenne leggenda. Secondo una cronaca parrocchiale, il popolo brembano pianse alla notizia. Coloro che lo avevano appoggiato subirono violenze ed umiliazioni. Ma la memoria rimase viva. Ancora oggi Vincenzo Pacchiana è molto popolare sia a livello culturale (è un personaggio centrale di molti spettacoli del più tradizionale teatro bergamasco: quello delle marionette) sia a livello politico (il principale centro sociale orobico è dedicato alla sua figura). In generale, la sua esperienza umana è divenuta parte intima del folklore della sua terra. E, ancora oggi, chi in val Brembana chieda chi sia il Pacì Paciana, la risposta è univoca:”Ol padrù de la ‘al Brembana”. Il padrone della valle.

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Bibliografia.

A chi volesse saperne di più, consiglio i testi a cui io stesso mi sono appoggiato:

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