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«What Were You Wearing?»: la mostra per sfidare i pregiudizi sulle vittime di stupro

Quando al telegiornale viene annunciato un nuovo episodio di violenza sessuale la domanda arriva in modo quasi spontaneo: “Cosa indossava la vittima quando è stata stuprata?”. Come se gli abiti della vittima avessero acquistato un ruolo chiave nella vicenda, quasi a sottolineare che una vittima non può essere definita tale se indossava un mini dress e stava andando a divertirsi con le sue amiche, come se un abito un po’ più corto possa giustificare una violazione così profonda.

È a questo proposito che nasce l’iniziativa promossa dagli studenti del Centro prevenzione e formazione sessuale dell’Università del Kansas, negli Stati Uniti. Gli studenti hanno incontrato delle vittime di stupro e hanno ascoltato le loro storie e grazie ai loro racconti hanno potuto allestire la mostra dal titolo «What Were You Wearing?».

In esposizione 18 outfit con accanto un pannello con poco righe che sintetizzano la storia vera di quella donna abusata. Si tratta di jeans, t-shirt, abiti sportivi e vestiti più eleganti; abiti che testimoniano una “vita normale”.

(c) Milleunadonna

«T-shirt e jeans. È successo tre volte nella mia vita, con tre persone diverse. E ogni volta indossavo t-shirt e jeans», recita uno dei cartelli.

(c) Milleunadonna

«Un prendisole. Mesi dopo mia madre, in piedi davanti al mio armadio, si sarebbe lamentata del fatto che non lo avevo più indossato. Avevo sei anni», rivela un’ex bambina violata.

Le immagini di «What Were You Wearing?» sono un vero pugno allo stomaco e attraverso i social stanno facendo il giro del mondo cogliendo perfettamente nel segno, spingendo le persone a riflettere su una tematica mai così attuale.

In un’intervista apparsa sul Chicago Tribune la direttrice dell’istituto universitario Jen Brockman ha dichiarato: «Vogliamo che le persone possano vedere se stesse riflesse nelle storie, negli abiti. […] Essere in grado di trovare pace per i superstiti e creare un momento di consapevolezza per la comunità: è questo, in definitiva, il vero obiettivo della nostra mostra».

Quei 18 abiti in modo semplice dicono tanto e pongono l’accento sull’aspetto più importante: l’abito non conta nulla in uno stupro. Quello stupratore avrebbe abusato della sua vittima, indipendentemente dagli abiti che stava indossando.

Quando si verifica un episodio così drammatico tutta l’attenzione dovrebbe concentrarsi sul carnefice, non sugli atteggiamenti o sugli abiti della vittima. Una persona violata resta in ogni caso una vittima, che non deve essere giudicata o ulteriormente privata della sua dignità e libertà.

In un secolo in cui si inneggia alla libertà di scelta in ogni ambito della vita, sono ancora troppi i pregiudizi e le false credenze legati alle violenze sessuali. Alla prossima vittima di stupro non andrebbero poste domande che cercano di capire se quella violenza “se l’è cercata”, ma bisognerebbe chiederle: “ora come posso aiutarti?”.

Simona Specchio

 

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Milleunadonna

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