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Il coraggio di perdersi e ritrovarsi: a tu per tu con Silvio Muccino

Lo scrittore romano autore di “Quando Eravamo Eroi” (La Nave di Teseo) un romanzo sul senso dell’amicizia, della diversità e del sapersi reinventare, si è concesso per un’intervista.

Quando eravamo eroi: copertina, pagina Twitter                                               dell’autore

We can be heroes, just for one day. Era il 1977 e David Bowie già credeva che si potesse essere eroi della propria vita anche per un solo giorno. Silvio Muccino, 36 anni, ha saputo reinventarsi prendendo la vita in mano, cercando di trovare sé stesso. Quel Silvio che forse dopo una vita passata sul grande schermo, si era un po’ perso. Un ragazzo diventato uomo.  Un uomo divenuto alieno – come ama definirsi e definire tutti colori che hanno cercato e scavato a fondo, lasciandosi toccare dalla vita -. Non è sempre facile fermarsi per chi è abituato a correre. Concedersi qualche istante guardandosi magari allo specchio e rispondere alla domanda “Chi sono io e cosa voglio fare”?.  Il successo che sta avendo “Quando Eravamo Eroi” è la dimostrazione che tutto è possibile, un sottile quasi impercettibile avvicinamento a ciò che diceva Lavoisier nel ‘700 “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.

Cambiare, uscire dalla zona di comfort, decidere di trasformare un’abitudine in un’altra, di trasformare una certezza per incertezza, rimettersi in gioco, ricollocarsi. I cambiamenti sono inevitabili, ci toccano, ci interrogano, ci scuotono, ci rendono straordinariamente carichi, positivi energici e fiduciosi.

E Silvio ci ha raccontato questo suo trasformarsi.

D: Come nasce l’idea di questo romanzo “da solista” dopo i primi due “Parlami d’amore” e “Rivoluzione n°9” scritti insieme a Carla Vangelista?

R: In realtà lo zampino della Vangelista c’è anche qui, perché – come ho scritto nei ringraziamenti – la primissima idea della storia era sua. Era un’idea per il cinema che aveva bisogno di essere presa in mano e sviluppata. Così me la passò dicendomi di farne quello che volevo. E visto che nel frattempo avevo iniziato a coltivare la voglia di tornare alla scrittura e il bisogno di libertà che solo la narrativa può offrirti – proprio perché a differenza del cinema non è un lavoro corale – una volta individuati i personaggi, ho scelto di sviluppare la storia come un romanzo. E così è nato Quando Eravamo Eroi.

D: Quando Eravamo Eroi, un romanzo che appartiene senza dubbio alla nostra generazione. Ecco a tal proposito di chiedo: cosa ne è di questa generazione a tuo avviso.

R: Credo che questa nostra generazione sia intimamente diversa da quelle precedenti, perché ciò che la contraddistingue è la sua incertezza, la sua natura amletica. I ragazzi degli anni ’70 mi sono sempre apparsi coesi, uniti, come diceva Abbey Hoffman “arrogantemente sicuri” nella strada da intraprendere per fare la rivoluzione, per cambiare il mondo. I ragazzi degli anni ’80 in modo molto diverso ma con la stessa determinazione avevano scelto di incanalare la loro ambizione non nella rivoluzione, ma nella scalata ai vertici, nel rampantismo economico, con l’idea di occupare un posto preciso nel mondo. I ragazzi degli anni  90 invece hanno sempre navigato nel dubbio, nel bisogno di trovare non tanto un posto quanto una propria identità. Non a caso i nostri “cantori” sono stati quelli che per primi hanno raccontato il malessere della non-identità, penso ai Nirvana, ai Radiohead, ai Pearl Jam. Per questo credo che siamo tutti molto amletici, perché siamo una generazione alla costante ricerca di se stessa. E forse è proprio per questo che il tema alla base del romanzo è l’identità, in tutte le sue sfumature.

D: Come riassumeresti in pochi righe il tuo ultimo lavoro.

R: È la storia di cinque amici, ormai trentenni, che dopo un lungo periodo di lontananza si ritrovano per tre giorni in una villa in Umbria per ritrovare e forse dire nuovamente addio all’amico che 15 anni prima li aveva abbandonati sparendo nel nulla. Quella diventa l’occasione per ripartire dal punto in cui si erano persi, di aprire gli occhi sulla loro vita e ripescare dentro di loro quella scintilla di originaria diversità che crescendo hanno ucciso per conformismo. È la storia di 5 eroi pieni di macchie e di imperfezioni che però non hanno paura di mettersi in crisi, di 5 alieni che il mondo o la vita, forse, non è riuscita a “normalizzare” del tutto e che possono ritrovare la loro vera identità, la loro più autentica natura, quella cioè di quando erano eroi, di quando sentivano che nella vita sarebbero potuti diventare tutto ciò che volevano, prima che i compromessi fatti li costringessero a rinunciare ai loro sogni.

D: L’aggettivo che tu hai utilizzato per i personaggi è quello di Alieni. Un aggettivo che tende a celebrare anche la diversità. Come credi che sia colta nel nostro Paese?

R: Come una minaccia. La diversità dell’altro è vissuta come un pericolo, come un attentato alla nostra integrità. E non solo perché rischia di intaccare la nostra vita, ma perché è uno specchio scomodo nel quale nessuno vuole rivedersi. Preferiamo riconoscerci tutti nei plastici sorrisi da Instagram che non nel volto più o meno segnato di chi ha scelto o è nato in una condizione più difficile. Siamo tutti contagiati dall’illusione di una felicità apparente, vogliamo apparire non per come siamo, per come possiamo piacere, per questo chi esce da questa logica, chi ha il coraggio di vivere solo secondo le sue regole, chi predilige se stesso agli altri, e quindi brilla nella sua diversità ci appare come un nemico. Perché la sua diversità mette in crisi la nostra normalità fasulla.

Alex, Eva, Rodolfo, Torquemada e Melzi, sono sicuramente degli outsider, rispetto la società nella quale vivono. Si può affermare che in qualche modo rispecchiano te?

R: Assolutamente sì. In tutti ho messo qualcosa di mio. Sono tutti “contenitori” delle mie debolezze, insicurezze, imperfezioni. Quelle che – ovviamente – come personaggio pubblico non ho mai mostrato, ma che crescendo mi hanno sempre fatto sentire distante dall’immagine che rivestivo. Li ho usati per mettere in luce quella famosa parte ombra che è tanto difficile da guardare ma che solo affrontando riusciamo a perdonare e quindi ad integrare nella nostra vita.

D: Si dice che per scrivere questo romanzo, ti sei dovuto allontanare da Roma. Tra l’altro dai dettagli che emergono durante il racconto, sembri darcene una conferma.

R: Andarmene da Roma è stata una scelta precedente al romanzo. Sentivo che avevo bisogno di un nuovo inizio, di un luogo che mi aiutasse a fermarmi e a capire chi ero diventato. Il cinema è un mondo che corre molto velocemente e che non si ferma mai. E nei miei vent’anni di carriera sono cresciuto e cambiato molto. Avevo bisogno di fare un punto con me stesso. Questo libro è una specie di istantanea su tutto ciò in cui credo, una lettera aperta a chi mi vuole leggere su ciò che ho appreso e su ciò che mi ha formato.

D: Chi sono i tuoi miti, verso i quali nutri ammirazione e dai quali prendi spunto?

R: Tutti quelli che hanno cercato e scavato a fondo. Chi si è lasciato toccare dalla vita, Chi non ha scelto la strada più facile. Chi ha avuto il coraggio di cambiare. Ma soprattutto chi con il suo lavoro mi ha dato gli strumenti e le parole per comprendere i miei sentimenti. Mi vengono in mente mille nomi, ma tra tutti penso a Janis Ian, David Bowie, Jack London e Sam Sheppard.

D: Progetti futuri?

R: Al momento sto seguendo ancora per mano questo libro, e il viaggio è esaltante, per cui sto cercando di non fare programmi. Continuare a scrivere è sicuramente una priorità, ho una storia per le mani, ma è ancora troppo presto per parlarne. Cercherò di improvvisare, ecco. Quando Eravamo Eroi dopotutto non l’avevo messo in programma, è nato così, di getto. E se c’è una cosa che ho capito è che quello che non programmo mi viene molto meglio di quello che invece preorganizzo.

D: Ultima domanda per tutte le nostre lettrice che sono ansiose di saperlo: sei innamorato?

R: Sì. Devo ammettere che la vita in questo momento è molto generosa nei miei confronti.

Un doveroso grazie a te Silvio.

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