Mogadiscio, 20 aprile 1994
Parma, in Vicolo dell’Asse al civico numero 5 ci sta una biblioteca, che porta il mio nome : Ilaria Alpi. Per me è un’onore (dopotutto, il mio papà viene da un paesino in provincia di Parma, Compiano) e vorrei tanto visitarla, ma non posso purtroppo, non posso più.
Io Parma non l’ho mai vissuta, perché Giorgio, il mio papà, si era già trasferito a Roma per motivi di lavoro, quando sono nata, il 24 maggio 1961.
Mi sono diplomata al Liceo Linguistico Tito Lucrezio Caro e ho conseguito la laurea in lingue e letteratura araba presso l’Istituto di Lingue orientali dell’Università La Sapienza di Roma.
La conoscenza delle lingue mi porta a diventare inviata in Egitto per conto di Paese Sera e de l’Unità, dove racconto non solo i fatti politici, ma anche le culture, le tradizioni, i conflitti di questo paese africano.
Africa dove avevo un pezzo di cuore: il nonno paterno, Filippo Quirighetti , ufficiale doganiere, ammazzato da un commando nel 1896 a La Folet, nei pressi di Mogadiscio, in Somalia.
Ed è proprio in Somalia che giungo nel 1992-1993, come inviata del TG3, dopo aver vinto tre anni prima il concorso per entrare in Rai: il sogno di ogni aspirante giornalista che diventa realtà; in quegli anni, la situazione nel Paese è molto complicata.
L’anno prima, nel 1991, era caduto il regime dittatoriale di Siad Barre, che contrariamente alla concezione comune, più che migliorare la situazione nel Paese l’ha peggiorata, scatenando una guerra “tutti contro tutti”, e costringendo l’ONU ad intervenire: viene mandata una missione, la con un obiettivo : creare un margine di sicurezza per l’invio di aiuti umanitari per la popolazione civile, prima vittima di questi grandi conflitti.
Io devo documentare le varie fasi della missione, alla quale partecipa anche un contingente italiano, nonostante ci fosse stata qualche riserva, a seguito di ambigui rapporti che il governo italiano aveva intrattenuto con Barre nel corso degli anni Ottanta.
Al mio arrivo, Mogadiscio è una città “divisa in due” tra due grandi clan rivali: da una parte Aidid, che domina sulla parte sud, dall’altra Ali Mahdi. A “dividerli” una zona di frontiera, che però era come se non esistesse: una specie di “coprifuoco non dichiarato”, dove ogni spostamento doveva essere accurato.
Ma io sono attratta dalla cultura, dalle tradizioni di questa terra, che voglio conoscere,consapevole (o forse no) del pericolo che corro; e chi meglio delle donne del posto, la situazione negli ospedali, nei campi, mi possono raccontare la situazione.
Una situazione, a detta di molti, causata anche dalla presenza delle organizzazioni internazionali, colpevoli di mandare in Somalia “gente armata e non cibo”: e anche noi italiani non siamo esenti da colpe: perchè?
Decido che è meglio approfondire questo, ed inizio le mie indagini; scopro che parte dei soldi che l’Italia dovrebbe destinare a quella che fino al 1961 è stata una sua colonia, non finiscono nei progetti per i quali sono stati destinati, e nella popolazione somala la povertà rimane.
Nel frattempo la situazione qua è divenuta molto pesante: gli americani hanno deciso di attaccare uno dei due “signori della guerra” , Aidid.
Dopo poco tempo, scopro che i traffici di denaro riguardano non tanto aiuti alla popolazione, quanto armi e rifiuti tossici, e quel che è peggio l’Italia sembra essere coinvolta: la situazione sta diventando più pericolosa.
Aidid aizza il popolo contro gli americani, e da allora gli occidentali non sono più visti di buon occhio dal popolo somalo: ma io resto e non mollo, nonostante l’attacco somalo ai noi italiani. Di quel periodo non dimenticherò mai quel 12 luglio 1993: pandemonio, nel quale 4 miei “colleghi” americani vengono ammazzati dal popolo somalo.
Volevo sapere: come, dove, quando ma soprattutto perchè.
Così vado in giro, tra il popolo, domando e scrivo, scrivo, scrivo. Io e il mio blocco note siamo una cosa sola, e lì annoto tutto, persino informazioni importanti legate a quell’ indagine su cui mi stavo sempre più focalizzando: il coinvolgimento italiano in traffici di rifiuti tossici ed armi in Somalia. Indagine che “qualcuno”, scoprirò, non voleva venisse fuori.
Per gli italiani, rimanere in Somalia è diventato un rischio per la propria incolumità, ma non per me, che ero decisa ad andare fino in fondo.
Nel frattempo, purtroppo, la scia di sangue occidentale lì continua: tra le vittime anche italiani, come Vincenzo (Li Causi,ndr), che in quel periodo mi aveva informata sul traffico illecito di scorie tossiche. La mia mente mi dice:
“Ilaria, non è più sicuro per te restare qui”
Ma il mio cuore sente di dover rimanere lì: non mi sarei data pace finchè non avrei scoperto la verità.
Mogadiscio, 20 aprile 1994
Ero tornata in Somalia, con il mio nuovo cineoperatore Miran ( Hrovatin): in quel periodo il contingenete italiano dell’ONU se ne stava andando da lì, tutti i giornalisti italiani se ne stavano andando.
Raggiungo Bosaso, cittadina a nord-est della Somalia, dove mi viene data la possibilità di intervistare il sultano della città, Abdullahi Moussa Bogor: mi fornisce informazioni utili alla mia “indagine” sul coinvolgimento dell’Italia in alcuni traffici di armi e rifiuti tossici.
Il 20 aprile me ne ritorno a Mogadiscio, ma lì non c’era più posto per me, la situazione era diventata difficile e pericolosa : me ne dovevo assolutamente andare.
E me ne sono andata. Per sempre. Senza neanche capire il perchè me ne sono andata.
Mamma e papà hanno lottato tanto, e molti ancora lotteranno per capire il perché me ne sono andata. E dal posto “migliore” in cui ora sono, anche io, Ilaria, ancora me lo chiedo.
SITOGRAFIA:
http://www.atlanteguerre.it/conflict/somalia/
http://turismo.comune.parma.it