Museo: raccolta, pubblica o privata, di oggetti relativi ad uno o più settori della cultura (tra cui in particolare, per tradizione, l’arte), della scienza e della tecnica.
Quando pensiamo ad un museo di storia naturale, immaginiamo per esempio, ad un’esposizione di scheletri di animali estinti o di specie ancora viventi imbalsamate, fossili, ma non di certo ad una raccolta dei venti che sono soffiati da varie parti del mondo.
Allo stesso mondo, in uno storico, potremmo trovare anche oggetti della vita quotidiana, ma chi penserebbe mai di trovare una lunga fitta esposizione di soli cavatappi,o di ombrelli, o addirittura di lucchetti. Forse è più facile trovarne uno dedicato solo ai gladiatori.
Però, sembra strano ma vero, ma in Italia esistono anche musei alquanto bizzarri e strani dedicati a questi oggetti tanto normali e comuni. Pronti ad un viaggio alla scoperta di queste “strane mostre”?
Museo della Bora
Trieste è la città dei venti. All’estremità del Molo Audace, da cui si gode una splendida vista sulla città, c’è una bitta con una rosa dei venti: maestrale, scirocco, libeccio, grecale e, in caratteri più grandi degli altri, la bora che tutto domina.
(Veit Heinichen)
La Bora è considerata uno dei simboli della città di Trieste, capoluogo del Friuli Venezia Giulia che nella storia e ancora oggi rappresenta ponte tra Europa occidentale e centro-meridionale: un vento continentale secco e freddo che scende, con violenza, dall’Altopiano carsico al mare soprattutto nella stagione invernale, sempre nella stessa direzione : ENE (Est-Nord-Est).
Il suo nome deriva dalla mitologia greca: Bora infatti era la figlia prediletta di Eolo, divinità dei venti; la più bella ,ma anche la più ribelle. Si racconta che ella s’innamorò segretamente di un umano, Tergesteo.
Un amore intenso ma segreto, fino a quando Eolo non scoprì i due amanti nella grotta dove si erano nascosti, scatenando la sua furia contro il giovane umano, che morì lasciando Bora sola e disperata.
Il suo pianto era potente ed inconsolabile, tanto che ogni lacrima diventava pietra; alla fine i due amanti riescono a riunirsi: Mare diede ordine alle Onde di lambire il corpo del povero innamorato ricoprendolo di conchiglie, di stelle marine e di verdi alghe, e i primi uomini giunti su quella collina e costruirono un Castelliere con le lacrime di Bora divenute pietre.
Un simbolo, la bora, che va celebrato in un museo che racconta la sua storia ma non solo: all’interno si trovano pure “L’Archivio dei Venti del Mondo” , bizzarra raccolta di venti in bottiglia provenienti da tutto il mondo, e l’Archivio di Silvio Polli, uno dei più grandi studiosi del fenomeno.
Museo dei cavatappi
Una volta… nel selvaggio Afghanistan, avevo perso il mio cavatappi e fummo costretti a vivere per giorni e giorni soltanto con cibo e acqua. (W. C. Fields)
Molte persone lo considerano un semplice pezzo d’arredo della cucina al pari di pentole, padelle, posate, fornelli, ma per gli Amanti del vino, quelli con l’A maiuscola, il cavatappi è molto di più: uno strumento indispensabile, un simbolo, un oggetto da collezione in alcuni casi.
Un oggetto, il cavatappi, dalla storia affascinante e curiosa, perchè quando comparve per la prima volta, nel 1400, il suo utilizzo era lontanissimo da quello che ne facciamo ai giorni nostri.
Infatti a quell’epoca i cavatappi erano usati nelle armerie per la pulizia delle canne di fucili e pistole o per la rimozione le palle di piombo dai cannoni.
L’utilizzo attuale di questo strumento risale invece ai primi del 1700, quando venne brevettato il primo cavatappi per spillare bottiglie di vino, e il reverendo Samuel Henshall ottenne il primo vero brevetto come “cavaturaccioli”.
Inizialmente oggetto di lusso, riservato ai membri delle classi più alte, ben presto il cavatappi divenne uno strumento fondamentale quando si passò dalle botti alle bottiglie in vetro per l’invecchiamento del vino.
Una storia tanto affascinante da portare Paolo Annoni,farmacista di origini torinesi trasferitosi in Langa nel 1985, a collezionare cavatappi antichi e, nel 2006, a racchiudere questa collezione in un museo nei locali di un’antica cantina accanto al Castello Comunale di Barolo, con 19 sezioni e 500 esemplari di cavatappi antichi provenienti da tutto il mondo.
Museo degli Ombrelli
Il cammino d’un uomo è comprensione dell’amore. Una cosa fragilissima, altro che mettersi sotto un ombrello.
Ondeggia e ruota nella mano di Gene Kelly nella celebre “Singing In The Rain”, va volare Mary Poppins nell’omonimo film Disney,o se non vogliamo pensare al fantastico ma al quotidiano, è il nostro protettore durante le giornate di pioggia, ma anche in quelle di sole, quando i raggi “picchiano”: esatto, stiamo parlando proprio di lui, l’ombrello. Un oggetto semplice, ma proprio per questo forse dalla storia straordinaria, che quasi sfiora il mito.
Questo perchè l’ombrello non ha nè un luogo nè un periodo preciso di origine, ma solo ipotesi: si pensa che derivi dal “cugino” parasole, oggetto molto diffuso in Egitto e nell’Oriente già dall’antichità, dove rivestiva un ruolo importantissimo: tra i faraoni, veniva usato soprattutto dai nobili, in Cina si pensa fosse era associato al culto dell’Imperatore, mentre in Giappone era il simbolo protettore dei samurai.
In Grecia e nell’Antica Roma, l’ombrello era un accessorio femminile, simbolo di classe e seduzione, ma anche religioso (le donne greche lo usavano durante i riti di culto al dio Dioniso). L’uso riservato ai nobili rimase anche nei secoli successivi, soprattutto nel ‘ 700, dove veniva portato da un servo, mentre l’uso attuale come parapioggia si ebbe solo a partire dal ‘800.
Il “Museo degli Ombrelli” a Gignese (VB) nasce da un progetto di Igino Ambrosini, figlio e fratello di ombrellai (1883 – 1955) già fondatore del Giardino Botanico Alpinia; in questo museo, sono esposti circa 1500 pezzi, soprattutto parasole e parapioggia che ripercorrono l’evoluzione della moda dall’800 ad oggi.
Museo dei lucchetti
Ci sono quelli che mettono i lucchetti sui ponti, e buttano via la chiave. Legano il loro amore per l’eternità. Abbiate cura di ricordare, dove mettete le chiavi di riserva, in modo che, se dovesse finire liberate un posto per chi come voi voglia legare il proprio amore. -Giovanni Di Blasi
Molte di noi da piccole ne avevano uno per il proprio diario segreto, dove magari scrivevamo dediche al nostro fidanzatino o pensieri intimi e personali lontane dagli occhi curiosi ed indiscreti di mamma e papà, altre pensano immediatamente a Ponte Milvio, Roma, divenutone un primo “museo” e culla di mille dediche e promesse d’amore fatte gettando le chiavi nel Tevere (Moccia docet, ma la storia di questi “lucchetti dell’amore” è molto più lunga): insomma, le parole “lucchetto” e “segreto” sembrano legate da un filo sottile,lungo tutta la storia affascinante di questo piccolo oggetto.
Un piccolo oggetto, ma dal valore storico così grande, che qualcuno ha voluto trasformare una collezione prima in un museo: quel qualcuno si chiama Vittorio Cavalli: classe 1923, nato a Neviano degli Arduini, paesino in provincia di Parma, si appassiona ai lucchetti nel 1943, quando gliene viene regalato uno durante l’addestramento militare.
Una passione che coltiva dal dopoguerra, che fino ad oggi l’ha portato ad avere un’ immensa raccolta di lucchetti storici di vario tipo, e che il 6 maggio 2001 è divenuto un museo, l’unico al mondo a raccogliere lucchetti storici di ogni genere e forme, proveniente da varie parti del mondo. Una storia, divenuta un documentario, “Yiuana”.