“Per colpa della moda, per desiderio di rinnovare, per affetto di sapere, si rinnega la nostra arte, il nostro istinto, il nostro modo di fare; è assurdo e stupido.” (Giuseppe Verdi)

18 anni: un numero importante, sinonimo di una tappa importante della vita ( a meno che tu non sia nato negli Stati Uniti, che lì già a 16 anni ti senti un piccolo adulto, ma io non sono americano- faccio Verdi di cognome, quindi…): la prima macchina, le prime scelte importanti, puoi andare addirittura a votare.

Conservatorio_Giuseppe_Verdi_Milan_cortile_ex_chiostro_di_Santa_Maria_della_Passione_01 Parma racconta Parma : Giuseppe Verdi
Fonte: Wikipedia

Io mi ricordo bene i miei 18 anni, dov’ero e soprattutto cosa stavo facendo. Stavo andando alla conquista del mio sogno più grande, poter studiare al Conservatorio di Musica a Milano, uno dei più prestigiosi all’epoca (siamo agli inizi dell’Ottocento, 1831 per l’esattezza) per poi diventare, forse un grande della musica.

La musica, il mio amore più grande, poi quando ti dicono che sei anche portato lo diventa ancora di più. In primis lo sostiene la mia famiglia: mio papà, Carlo (Verdi,ndr), la mia mamma Luigia (Uttini,ndr) e la mia sorellina Giusy. Lo pensa anche il signor Baistrocchi (Pietro), mio insegnante d’italiano, ma anche grande organista: grazie a lui i miei mi regalano a sei anni la spinetta, e vi assicuro che la consumai talmente tanto che dovettero ripararla: ma a quanto pare, anche l’artigiano pensava che fossi bravo, talmente tanto che non volle nemmeno essere pagato da mio padre.

Pietro mi ha preso “sotto la sua ala”, insegnandomi a suonare anche altri strumenti, come l’ organo e del pianoforte, e di questo non l’avrò mai ringraziato abbastanza.

Ma se in quel momento mi trovavo davanti al Conservatorio di Milano, con una possibilità di potervi entrare, era grazie ad Antonio (Barezzi,ndr) , il mio sostenitore più grande.

A ripensarci, mi sento in colpa e ho paura di averlo deluso (purtroppo, una volta entrato, mi hanno bocciato subito all’esame preliminare); ma lui ha sempre creduto in me, nel mio talento e non mi ha abbandonato.

Ha sempre messo una buona parola con diversi maestri di musica e filarmonica, tanto che grazie a lui iniziai ad insegnare filarmonica nella mia Busseto, fino a diventare Maestro di Musica del Comune. Nel 1836 mi concedette la mano di sua figlia Margherita, della quale ero molto innamorato, e che i due anni dopo mi donò due piccole gioie, ma di breve durata : Virginia Maria Luigia e Icilio Romano. Si spensero troppo presto, come a suo tempo la mia amata sorellina, che non riuscì a vincere contro un brutto male, la meningite.

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Ma nel 1839 vi fu un’altra grande nascita: la mia prima opera, l’Oberto, Conte di San Bonifacio, venne rappresentata per la prima volta al Teatro alla Scala di quella Milano che mi aveva “bocciato”. Tuttavia il pubblico milanese seppe apprezzare: le repliche furono addirittura 14.

Questo mi aiutò forse ad attenuare l’immenso dolore che provavo per la perdita dei miei figli, inconsapevole che un’altra “luce maestra” della mia vita si sarebbe spenta di lì a poco: l’anno dopo, infatti, mentre stava componendo Un giorno di regno, la mia amata Margherita mi lasciò per sempre.

Così giovane e bella, la prese con sé un terribile male. Senza di lei, senza i miei figli, la musica non aveva più senso; come se non bastasse, la mia opera non riscosse nemmeno tanto successo, anzi fu un vero e proprio flop.

Era giunto il momento di “prendere una pausa” dalla musica, all’inizio per sempre: ma alla fine quella pausa durò solo un anno e mezzo. E fu grazie a Bartolomeo (Merelli) che decisi di non mollare.

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Fu così che mi misi a scrivere il Nabucco, che andò in scena il 9 marzo 1842 al Teatro alla Scala :un autentico trionfo. E quello fu solo il primo di tanti altri che vennero dopo, tanto che mi sembrò di stare in galera: giorni e giorni rinchiuso nel mio studio a scrivere opere su opere: da “I Lombardi alla prima crociata” a “La battaglia di Legnano”, “I due Foscari”, “Giovanna d’Arco”, “Alzira”,” Attila” e “Macbeth”, solo per citarne alcune (quest’ultima dedicata a Barezzi, il mio mecenate – “”Ho sempre inteso a dedicare un’opera a te, come sei stato un padre, un benefattore e un amico per me. È stato un dovere che avrei adempiuto prima se le circostanze imperiose non mi avessero impedito. Ora, io mando a voi Macbeth, che io apprezzo sopra tutte le mie altre opere, e quindi la ritengo degna di dedicarla a voi”-).

 

Una galera che aveva qualche spiraglio di luce: uno di questi si chiama Giuseppina Strepponi.

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La conobbi a Parma, era nel cast del Nabucco che sarebbe andato in scena al Teatro Regio di Parma: è stata non una semplice compagna, ma un supporto, una spalla su cui piangere. Ma l’Italia, soprattutto la mia Busseto non era pronta per questa relazione, ma la Francia sì. Così nel 1848 mi trasferiì a Parigi con la mia amata.

Quella serenità e libertà di poter vivere una relazione senza pregiudizi riaccese la vena creativa che era sempre vigile e feconda, e 1851 al 1853 composi “Rigoletto“, “Trovatore” e “Traviata“, le tre opere che incosapevolmente mi fecero conoscere in tutto il mondo, anche se con qualche difficoltà legata ad una cosa chiamata “censura”.

 

Alla fine tutto passò, e potei finalmente riposarmi curando la mia tenuta nella quale ero tornato; ma Giuseppina continuava a non essere gradita dai miei concittadini e dalla mia famiglia, con cui avevo rotto i rapporti, trasferendomi a Sant’Agata il 1º maggio 1851.

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Quelli che seguirono fu anni di “travaglio”, in cui mi potei dedicare con più tranquillità alla composizione di nuove opere e a Giuseppina, che ormai era mia moglie a tutti gli effetti. Nel frattempo le mie opere fecero il giro del mondo, raggiungendo addirittura l’Egitto, dove il faraone mi chiese nel 1869  di comporre un’opera per celebrare solennemente l’apertura del canale di Suez. Nacque così l’ “Aida”, che andò in scena due anni dopo, la vigilia di Natale del 1871 al Cairo, e qualche tempo dopo, nel 1872, alla Scala.

 

In quegli anni composi anche due importanti “messe a requiem” : una in memoria di Gioachino Rossini ed una per ricordare Alessandro Manzoni, venuto a mancare il 22 maggio 1873; in molti credettero che la voglia di comporre fosse andata completamente a scemare, ma per tutti avevano in serbo una “sorpresa” in collaborazione con il mio amico Arrigo (Boito, ndr): una sorpresa chiamato “Otello“.

Ma fu solo la prima delle tante idee che Arrigo aveva in riserva per me, anche se io nn ero molto in vena in quel periodo: l’ età avanzava, la mia salute stava peggiorando e avevo perso parte dei miei amici più cari. Ma non dovevo lasciarmi andare alla depressione, e proprio per questo decisi di completare Falstaff, che andò in scena il 9 febbraio 1893 alla Scala di Milano. Fu l’ultima mia grande opera.

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Fonte: Alamy

Qualche anno dopo, anche la mia amata Giusy mi lasciò solo, portata via dalla meningite: stesso nome, stessa malattia della mia compianta sorellina. É vero, avevo ancora i miei amici, la mia “figliola” Maria, ma ormai la vita non aveva più senso. Come da loro consiglio, trascorsi quegli ultimi giorni a Milano, dove salutai tutti il 27 gennaio 1901.

Diciotto anni, come quelli che avevo quando ero sul punto di realizzare un sogno, e come quelli da cui ormai mi fanno la festa, per ricordare le mie opere, la mia bravura. Per ricordare Giuseppe Verdi.

 

SITOGRAFIA:

http://www.mollybrown.it/

http://www.verdi.san.beniculturali.it/verdi

https://biografieonline.it/

http://www.teatroregioparma.it

 

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