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Boochani: l’urlo oltre la prigione al festival Internazionale 2018

Boochani: l’urlo oltre la prigione al festival Internazionale  2018

”È un’occasione per riflettere, e per smontare la paura dei nostri giorni. Bisogna tornare ad essere critici per essere protagonisti della realtà.

Questo festival nasce con l’obiettivo di confrontarsi e capire. Siate curiosi. Questo messaggio è soprattutto rivolto ai giovani, che grazie alla rete, hanno di fronte tanta libertà di comunicazione ma, nonostante ciò, si fermano alla ‘’prima informazione’’ e mai approfondiscono”. Direttore Internazionale

Così inizia la 12esima edizione del festival Internazionale 2018, che da oggi 5 ottobre, si terrà a Ferrara, fino al 7 ottobre.

The Web Coffee è stato partecipe al primo evento della giornata, ovvero al Premio giornalistico Anna Politkovskaja, per ricordare la giornalista russa uccisa a Mosca nel 2006.

Vincitore dell’edizione 2018 è Behrouz Boochani, scrittore, giornalista e regista curdo iraniano. Egli è detenuto dal 2013 nel centro australiano per migranti sull’isola di Manus, in Papua Nuova Guinea, e da allora racconta le condizioni di vita nella struttura. Si considera un prigioniero politico. Nel 2007 ha vinto il premio di Amnesty International Australia, attribuito a giornalisti e mezzi di comunicazione australiani che si sono distinti nel trattare i temi legati ai diritti umani.

Fonte: Google

Ma egli non ha potuto ritirare l’ambito premio e, al suo posto, Omid Tofighian, professore e ricercatore dell’università di Sydney, amico e traduttore del libro ‘’Not Friend But the Mountains: Writing from Manus Prison’’, di cui Boochani è autore. Nonostante la sua impossibilità, egli ha voluto comunque lanciare un messaggio, attraverso la narrazione della sua toccante e tragica storia.

Di seguito il suo discorso…

Scrivo da Manus, un’isola remota nel mezzo dell’Oceano Pacifico parte dei territori della Papua Nuova Guinea. Sono nato in Kurdistan nell’Iran occidentale e in quanto curdo sono cresciuto facendo i conti con la discriminazione. Questa discriminazione sistematica ed individuale ha condizionato il mio punto di vista e la mia visione del mondo nel profondo. Ho lasciato l’Iran a causa del mio impegno nel giornalismo e a causa del il mio attivismo per difendere la cultura curda. Stavo lavorando nella città di Ilam, nel Kurdistan, per “Werya”, una rivista culturale curda. Purtroppo, la Sepah (l’intelligence iraniana) ha fatto irruzione nel nostro ufficio e ha arrestato alcuni dei miei colleghi. Ho deciso di denunciare questo evento alle istituzioni internazionali e sono stato quindi costretto prima a nascondermi e poi a lasciare il Paese perché era diventato troppo insicuro per me restare.

Sono arrivato in Indonesia e vi sono rimasto quattro mesi prima di partire per l’Australia, dove speravo di poter trovare asilo politico dato che è un paese firmatario della Convenzione per i Rifugiati delle Nazioni Unite. La traversata in barca fino in Australia è stato un viaggio molto duro. Tanto da diventare due viaggi. Durante il primo la nostra barca è naufragata in mezzo all’Oceano e per poco non sono affogato. Siamo stati soccorsi per poi essere arrestati dalla polizia indonesiana e rinchiusi in cella. Sono riuscito a fuggire e a lasciare l’Indonesia, nuovamente in barca, arrivando sull’isola di Natale il giorno del mio compleanno, nel 2013. L’isola di Natale è parte dei territori australiani ma purtroppo sono arrivato pochissimi giorni dopo l’approvazione della legge per la quale chiunque arrivasse in barca per cercare asilo politico doveva essere esiliato oltre i confini nazionali dell’Australia nelle isole di Manus, Papua Nuova Guinea, o Nauru, un’altra minuscola isola nell’Oceano Pacifico, senza che i loro casi o le loro richieste di asilo venissero neanche prese in considerazione o esaminate.

Mi sono quindi ritrovato ad essere un detenuto in una prigione molto dura su un’isola che non avevo mai sentito nominare e sulla quale né giornalisti né avvocati potevano mettere piede. Ho cominciato quasi subito a pensare che il mio dovere come giornalista e scrittore fosse combattere contro questo sistema che aveva esiliato me e migliaia di altre persone. Scambiando sigarette e vestiti con i secondini, sono riuscito a far entrare clandestinamente nel campo un cellulare. Era così che riuscivo a mettermi in comunicazione con il mondo esterno e ad inviargli il mio lavoro. Eravamo sempre perquisiti, cercavano i nostri cellulari, ma il mio lo trovarono solo due volte, malgrado vivessi nell’ansia costante di vedermelo sequestrato: lì c’era tutto il mio lavoro. Per due anni ho contribuito al lavoro di altri giornalisti e ho lavorato come “fonte anonima” per organizzazioni per i diritti umani con lo scopo di portare attenzione sulla nostra sofferenza.

L’anonimato era necessario perché avevo paura di essere ucciso dalle autorità anche se non direttamente. Ho subito varie minacce e intimidazioni mentre ero in questa prigione. Fino ad ora, dodici persone sono morte nei campi di detenzione al largo della costa australiana. Poi sono stato accettato come Main Case (Caso Principale) da PEN International e iniziai ad essere conosciuto e a pubblicare con il mio nome. Ho pubblicato centinaia di articoli per testate in Australia e in giro per il mondo, sono stato intervistato e ho pubblicato numerose interviste ai miei compagni di carcere, lavorato con direttori di teatro in Iran per sviluppare uno spettacolo intitolato “Manus”, lavorato con vari documentaristi e fotografi. In questa prigione lavoro tutti i giorni. Scrivo. Per me scrivere è resistere e resistere è vita.

Quando ho iniziato, cinque anni fa, pensavo: “scriverò per persone in giro per il mondo che non conosco, e se solo una leggerà il mio lavoro, allora scriverò per quell’unica persona” Oggi sono felice perché dopo cinque anni ho lettori in tutto il mondo e perché il governo australiano non può più nascondere i propri crimini contro l’umanità. Cerco sempre di scrivere non solo per denunciare il governo australiano, ma in modo che la questione dell’immigrazione diventi rilevante a livello globale, perché minacciare persone innocenti, come i rifugiati, in modo barbaro non è solo un atteggiamento dell’Australia ma anche, in maniera sempre più frequente, di altri governi nel mondo.

In tutto il mio lavoro, invito le persone a rispettare la vita e ad amare; questi sono i nostri valori universali. Vorrei ringraziarvi per questo riconoscimento, è molto importante per me che i miei lavori siano conosciuti internazionalmente. Mi rende ancora più determinato nel mio lavoro. Per concludere, vorrei ricordare a tutti il mio libro “No friends but the Mountains: Writing from Manus Prison” che è stato pubblicato due mesi fa. Lasciatemi sognare… Spero che questo libro sia tradotto in italiano molto presto. Grazie ancora per aver premiato il mio lavoro.

Tofighian, evidentemente emozionato, alla domanda ‘’Che cosa succederà a queste persone?’’, risponde che nessuno sa cosa accadrà. Si parla di spostare queste persone negli Usa o in Nuova Zelanda, che si è offerta di ospitarle.  Può darsi che siano rilasciati tra una settimana o mai più.

Tutta questa attenzione sul suo lavoro ha cominciato a prendere forza meno di un anno fa. Il problema è che la stragrande maggioranza degli australiani era d’accordo con la politica del governo, anzi richiedevano una politica ancora più dura. Le informazioni non mancano, manca l’umanità.

‘’Il libro è un anti-genere che resiste ad ogni tipo di classificazione: è un commento politico, una meditazione filosofica, politica, poesia, folklore. È davvero una grande dimensione. Questo per comprendere la tradizione curda, ovvero un modo molto forte di esprimere il realismo. C’è anche un auto analisi e una dimensione orrenda, quindi piuttosto di parlare di genere, parlerei di stile ‘surrealista orrorifico’’. Continua il professor Tofighian.

L’incontro si conclude con la proiezione di un mini-documentario, filmato dallo Boochani nel carcere, con un cellulare. Inutile dirvi che le immagini illustrate facevano accapponare la pelle, per la troppa crudeltà della prigione.

 

 

 

 

 

 

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