Immaginate per un momento due soldati romani che si prendono a parolacce… in latino!
A prima vista può sembrare una scena piuttosto bizzarra e colorita, eppure il turpiloquio ha origini che risalgono addirittura all’Antico Egitto, con bestemmie piuttosto variopinte già nel III-II millennio a.C., tra cui “femmina senza vulva” riferito alla dea dell’oltretomba, Nefti, e “privo di madre” dedicato al dio Thot.
Appare insomma evidente che gli uomini del passato offendevano e dicevano parolacce per sfogare rabbia, odio, indignazione o frustrazione, o, secondo alcuni antropologi, per provocare la reazione fisica dell’avversario.
Un’alternativa al lanciarsi le pietre
Curiosamente, l’invenzione delle parolacce è una delle caratteristiche che ha dato vita alla civiltà. Senza queste infatti, l’essere umano avrebbe continuato a lanciarsi pietre per rispondere allo sfogo della rabbia.
Dopo i geroglifici lasciatici dagli egiziani, troviamo fonti più certe e numerose nei cugini greci che evitavano le bestemmie per non far infuriare l’Olimpo, ma avevano un’ampia fantasia in fatto di imprecazioni: “per l’aglio“, “per il cane” e “per la capra“. Addirittura Pitagora imprecava con numeri, il suo preferito era il numero 4.
Nella letteratura greca, gli storici hanno spesso trovato frasi in cui le parole non erano proprio eleganti.
“Il suo cazzo (…) come quello di un asino di Priene
stallone gonfio di cibo eiaculava“
E i nostri antenati romani non erano più educati dei Greci poiché il loro vocabolario conteneva termini che sono rimasti poi nel nostro dizionario di insulti, come stercus (merda), futuere (fottere), meretrix (prostituta). Tutte espressioni comparse anche sui graffiti dei muri di Pompei.
Sempre a Pompei, è curioso soffermarsi a pensare a come le mura della città assomigliassero alle porte dei bagni dei nostri attuali autogrill, scuole, ed edifici pubblici. I romani infatti erano soliti scrivere commenti sulle loro recenti prestazioni sessuali o semplicemente insultare chi non era loro gradito.
Si va da “Appollinare, medico di Tito, in questo bagno egregiamente cagò” a un altrettanto soddisfatto “Che gioia inculare!“. Ma si può trovare anche un leggendario e indimenticabile addio: “Piangete ragazze, il mio cazzo vi ha abbandonato. Ora incula i culi. Fica superba addio!”
Nulla che si allontani dalla attualità, insomma.
La più antica (forse la prima?) parolaccia in italiano volgare (in tutti i sensi).
La più antica parolaccia risale alla fine del XI secolo e viene tutt’ora utilizzata negli insulti più coloriti.
L’insulto “Fili de pute“ si trova nella basilica di San Clemente in Laterano ed è scritto su un affresco che illustra la vita di papa Clemente. Una prova che le parolacce e le offese che tirano in ballo la famiglia sono ed erano molto diffusi.
Tra i tanti, non più in uso, troviamo “figlio di un traditore” e “figlio di un prete“.
Parolacce per tutto!
La lingua italiana è indubbiamente la più capiente tra gli idiomi che possiedono insulti e imprecazioni; e inoltre ingloba parolacce non solo a partire da gerghi specifici, ma anche da molti dialetti e lingue regionali che si parlano nella nostra penisola. Per esempio nel Romanesco, gli insulti possono in certi contesti assumere espressione di meraviglia o di compiacimento.
Sono per lo più tre i modi d’uso delle parolacce: insulti, con lo scopo di ferire verbalmente una persona, imprecazioni, utilizzati più per parlare a noi stessi che agli altri, un certo tipo di “sfogo” e maledizioni, per augurare un male a una persona.
FONTI
Focus.it