Quando si pensa ad un viaggio da fare in Bosnia, ogni itinerario parte sempre da Sarajevo, città simbolo della guerra che segnò negli anni ’90 in quella che ormai è l’Ex Jugoslavia, di cui porta i segni. Bella e forte tra i segni della storia d’Europa e la ricchezza di un’integrazione millenaria.
Una storia che nella capitale della Bosnia ha solo un inizio, e che vive anche in altre città.
Tra queste vi è Bihac, situata a 20 minuti dal confine croato. Una città dove il ricordo di quella guerra sembra essere vivo più che mai, e la riconciliazione è ancora in corso: forse non è nemmeno iniziata.
Una città che oggi vive al suo interno un altro “dramma”: quello di migliaia di migranti provenienti da Siria, Pakistan, Afghanistan, che cercano la salvezza attraverso la “rotta balcanica”, dove sono costretti a fermarsi, qualcuno addirittura per anni, perché la polizia croata respinge in maniera costante e brutale chi cerca di varcare il confine con la Bosnia.
Provano e riprovano, aspettando il game fortunato, quello che li porterà in UE. Il game passa attraverso i boschi , con i sentieri segnati da sacchetti di plastica legati agli alberi, dove la polizia di confine è sempre in agguato. Pronta a sparare, picchiare chiunque tenti di attraversare il confine, e a riportarlo in Bosnia.
Bira è il più grande campo profughi di Bihaƈ, costruito all’interno di una vecchia ditta abbandonata di frigoriferi che si estende su una superficie di oltre ventimila metri quadrati nel centro della città bosniaca.
L’unico svago all’interno del campo è il Social Cafè di IPSIA, gestito dalla Caritas. Qui gli uomini disegnano, intrecciano bracciali di perline e modellano pinguini di das. Nell’unico posto in cui non vengono respinti.
Tuttavia, pensando al fatto che la parola game per loro identifica il tentativo di passare il confine, capisco perché sono sereni: sono games anche questi, ma riportano a una serenità e a un riconoscimento umano che manca nei campi. E poi, la normalità qui è ribaltata.
Gli adulti si appellano a giochi fanciulleschi per ritrovarsi esseri umani, mentre i bambini crescono in fretta aggrappandosi soltanto alla curiosità, che porta i loro occhi ad illuminarsi davanti agli attrezzi circensi che due acrobati spagnoli hanno portato e gli insegnano ad usare.
Al campo profughi di Vucjak invece non c’è nemmeno quello. Lo spiazzo, sulle montagne, era una discarica. Oggi, la polizia ci porta i migranti che trova in città.
Si vede, a volte, una lunga carovana di persone che, una volta giunta a destinazione, non si troverà davanti altro che una distesa di tende bianche, qualche container come bagno e delle cisterne per l’acqua potabile.
A Vucjak c’è soltanto la Croce Rossa, che fornisce due pasti al giorno e quello che riceve dalle donazioni.
A volte la polizia porta i migranti, anche 300 alla volta, senza avvisare, e la frequenza dei pasti diminuisce.
Qualcuno dei migranti si è organizzato, e con pentole di fortuna e un fornellino da campeggio cucina piadine tradizionali e bolle latte e chai. L’associazione IPSIA distribuisce Cedevita, una bevanda vitaminica, si gioca a pallavolo, si suona l’ukulele, si balla.
C’è un clima molto più rilassato e vitale che al Bira, tanto che qualche migrante si fa volutamente portare qui: almeno non ci si sente in prigione e non si rischia di non vedere il cielo per settimane. Le condizioni però sono critiche, e tutti ne sono lucidamente consapevoli.