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Cinque anni dalla scomparsa di Gabriel García Márquez, indimenticato padre del “realismo magico”

Il 17 aprile 2014, a Città del Messico, moriva uno dei più grandi maestri della letteratura del Novecento: Gabriel García Márquez.

Premio Nobel, inventore del “realismo magico”, raffinato narratore di storie e sentimenti inseriti in una realtà contaminata da elementi magici e onirici, ha lasciato un’immensa eredità custodita in migliaia di pagine, in romanzi osannati dalla critica e dal pubblico che, anche a distanza di tempo, continuano a sorprendere per la loro intensità.

Nell’anniversario della sua morte, nella giornata di oggi, conviene allora ricordare e omaggiare questo grande scrittore, giornalista e saggista ripercorrendo tutto quello che lo ha reso unico e immortale. Esattamente come le sue opere.

Da Aracataca al Premio Nobel per la Letteratura: la storia di “Gabo”

Nato il 6 marzo 1927 nel piccolo villaggio fluviale colombiano di Aracataca, il piccolo Gabriel José de la Concordia García Márquez, soprannominato Gabo, viene cresciuto dai nonni nella città caraibica di Santa Marta. Dopo il diploma, nel 1947, inizia gli studi all’Universidad Nacional de Colombia di Bogotà dove frequenta la facoltà di giurisprudenza e scienze politiche e nello stesso anno pubblica sulla rivista «El Espectator» il suo primo racconto dal titolo La tercera resignacion. Presto abbandona lo studio di queste materie che non lo affascinano e inizia la carriera di cronista per giornali e riviste, sia europei che americani. Vive a Roma e a Parigi per alcuni mesi; nel ’58 sposa Mercedes Barcha da cui ha due figli: Rodrigo e Gonzalo.

Il trasferimento in Messico e l’ascesa letteraria

Legato da amicizia “intellettuale e letteraria” a Fidel Castro, inizia a lavorare per l’agenzia «Prensa Latina», prima a Bogotà e poi a New York. Ma è proprio il legame con il líder maximo a causargli critiche e minacce (da parte degli esuli cubani anticastristi) che lo costringono a trasferirsi in Messico, paese in cui risiede dal 1976 e che dà i natali ai suoi capolavori più apprezzati.

Proprio a Città del Messico, nel 1962, scrive il suo primo libro I funerali della Mama Grande che contiene anche Nessuno scrive al colonnello: è da queste pagine che inizia a delinearsi il fantastico mondo di Macondo, il paese immaginario che fa da cornice a Cent’anni di solitudine, romanzo pubblicato nel 1967 che lo consacrerà per sempre nell’Olimpo della letteratura mondiale.

Con più di 20 milioni di copie vendute e la traduzione in 37 lingue, questo libro segna il suo successo definitivo. Seguiranno nuovi scritti: Racconto di un naufrago (1970), L’autunno del patriarca (1975), Cronaca di una morte annunciata (1981). Nel 1982 viene insignito del Premio Nobel per la Letteratura e la sua attività narrativa si fa più prolifica. Arrivano nell’ordine: L’amore ai tempi del colera (1985), Il generale nel suo labirinto (1989), Dell’amore e di altri demoni (1994), Notizia di un sequestro (1996).

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Gli ultimi scritti e la morte

Nonostante il cancro, nel 2002 pubblica la prima parte di Vivere per raccontarla, la sua autobiografia. Un concentrato di ricordi e memorie della prima parte della sua vita, spesso descritta con toni toccanti, divenuto una sorta di “chiave di lettura” per tutta la sua produzione. Tra le citazioni più memorabili: “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”.

La sua penna, tuttavia, si ferma definitivamente nel 2004 con l’ultimo romanzo, Memoria delle mie puttane tristi. Una grave polmonite lo porta via il giorno 17 aprile 2014, all’età di 87 anni, tra lo sgomento di lettori e personalità politiche e artistiche di tutto il mondo.

Perché ricordare Gabriel García Márquez?

Storia e mito, tradizione e sperimentazione, vicende reali mescolate a racconti d’amore e di passione, crudeltà e romanticismo. Márquez è l’autore che, meglio di chiunque altro nel suo secolo, è riuscito a far convivere elementi in contrasto facendoli addirittura confluire in uno stile tutto nuovo: quello del realismo magico.

Testo apripista di questo filone letterario, che attirò l’attenzione di autori come Borges e Buzzati, e che ha influenzato di seguito autori come Paulo Coelho e Isabel Allende, fu appunto la sua opera di maggiore successo, Cent’anni di solitudine.

Un romanzo che in realtà è un viaggio all’interno di un microcosmo fatto di isolamento e arretratezza, dove le sette generazioni della famiglia Buendía vivono le loro esistenze segnate da drammi e sentimenti, dove non ci sono confini tra il regno dei vivi e quello dei morti, dove leggenda e folklore sono accompagnati dalla magia, dove l’eroismo è spesso preludio di sconfitta in una dimensione temporale distorta che non manca di confondere il lettore. E la grandezza si nasconde in questa complessità.

Doveroso ricordare lo scrittore sudamericano per le splendide storie d’amore che ci ha consegnato, per genialità, fantasia e romanticismo, per averci condotto in mondi lontani e travolgenti che continuano ad accompagnare il nostro tempo e a farci “perdere” piacevolmente nell’esotico e nell’indefinito.

Questo piccolo omaggio a colui che ci ha insegnato a credere che la realtà, sebbene tremenda, possa nascondere la magia, il mistero e la bellezza, non può che chiudersi con le sue stesse parole – riportate in una toccante lettera scritta nel 2013 mentre le sue condizioni di salute peggioravano –:

C’è sempre un domani e la vita ci dà sempre un’altra possibilità di fare le cose per bene, ma se mi sbaglio e oggi è tutto quello che ho, vorrei dirti quanto ti amo e che non ti dimenticherò mai. Se Dio mi desse ancora un pezzettino di vita, vestito semplicemente, mi al lungherei sotto al sole, mettendo a nudo non solo il mio corpo ma la mia anima. Vorrei mostrare agli uomini quanto sbaglino a pensare che si smette di innamorarsi quando si invecchia, senza sapere che invece si invecchia quando si smette di amare. A un bambino darei ali, ma lascerei che imparasse a volare. E a un vecchio direi che la morte non arriva con la vecchiaia ma con l’oblio.

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