Avrete sicuramente sentito del gender pay gap, espressione inglese che indica il divario salariale fra maschi e femmine. Un divario che si manifesta facendo la differenza fra il salario annuale medio percepito da una donna e da un uomo. Il gender pay gap è il risultato di diversi fattori, a parte la non equa retribuzione. Entra in gioco anche il numero di donne che hanno accesso al mondo occupazionale, la situazione di madri lavoratrici, l’età, il livello d’ istruzione ecc.
Il Gender Pay Gap in Italia
Lo scenario in Italia è alquanto pietoso. Ci siamo posizionati al 76esimo posto per quanto riguarda la parità dell’ accesso alla partecipazione economica nel 2019. Eravamo al 70esimo posto nel 2018, anno in cui abbiamo tirato un sospiro di sollievo visto l’82esimo posto dell’ anno 2017. Dati alla mano dall’ World Economic Forum.
Abbiamo visto diverse proposte per raggiungere un equa rappresentatività femminile nel nostro paese:
- le quote rosa;
- l’ istituzione del Ministero per le Pari Opportunità nel 1997;
- l’ Equity Act di Nicola Zingaretti, segretario del Partito Democratico.
- Renzi che, nel suo nuovo partito, Italia Viva, ha deciso che ogni ruolo venga ricoperto sia da una figura maschile, sia da una femminile;
Queste soluzioni però mirano alla parità sulla base del sesso, non del merito, né tantomeno si focalizzano sul pari opportunità e trattamento e non analizzano le varie sfaccettature del problema. Prendiamo per esempio un’ azienda tecnologica. Molto probabilmente avrà dirigenti, ingegneri e dipendenti prevalentemente maschili. Il numero di donne sarà esiguo. Come viene spiegato questo fenomeno? Non si getta luce sul fenomeno, bensì si creano espedienti guiridici che obbligano l’ azienda a raggiungere una tot percentuale di dipendenti donne, pena la multa salata. Dov’è la logica del merito? E’ giusto assumere sulla base dell’ appartenenza ad un sesso? Forse sarebbe più utile cercare di capire perché ci sono meno donne interessate a discipline e carriere in certi ambiti (come quelli STEM) piuttosto che voler raggiungere apriori alcune quote. Ed è lì che bisogna lavorare, piuttosto che imporre rigidamente numeri da conquistare con la coercizione.
Meno donne lavorano in alcuni ambiti e più si amplifica il gender gap. In certe occupazioni, le donne non ci sono proprio.
E non è tutto. Tante donne scelgono di accudire i figli in casa, rinunciando al lavoro oppure accettando lavori pagati poco o part-time giusto per arrotondare. E ci sono pure aziende che invece di focalizzarsi sulle competenze di una professionista donna in sede del colloquio, le chiedono se ha intenzione di avere figli nel futuro. In caso di genitori malati, spesso è la donna a sentire il dovere morale di abbandonare il lavoro o di ridurre le ore per prendersi cura di loro. Insomma, i retaggi culturali sono ancora forti e ciò non aiuta professionalmente le donne. Addirittura nei paesi scandinavi dove si è combattuto maggiormente per la parità di genere, sempre più donne scelgono di abbandonare la carriera per la famiglia.
Infine, è bene considerare la logica del mercato. Immaginiamo una consulente finanziaria newyorkese che viene chiamata alle quattro del mattino dal suo cliente di Hong Kong. Lei dovrà rispondere subito, anche se si è appena addormentata dopo aver allattato suo figlio. Lei sa che se non lo fa, il cliente chiamerà un altro consulente finanziario ipercompetitivo di New York che sarà felice di rispondere ed incassare chissà quanti milioni di dollari. Perché è il mercato a determinare il successo e a definire il lavoro. Come possono giovani madri che vogliono realizzarsi in settori altamente competitivi far combaciare carriera e maternità? Come affrontare la natura feroce del mercato che stabilisce chi avrà successo e chi no, un successo spesso a discapito delle donne?
Il problema è molto ampio e va trattato su più fronti. A partire dall’ educazione che ricevono le bambine fino ad arrivare agli uffici delle risorse umane dove si devono combattere le discriminazioni di genere, senza dimenticare adeguate politiche di governo.
Ilda Nikolli