Femminismo islamico: di cosa si tratta?
In Occidente, abbiamo tanti, troppi pregiudizi nei confronti della religione islamica.
E’ tuttavia sbagliato credere che le donne islamiche siano sottomesse alla propria religione.
«La liberazione femminile è possibile nel nome dell’Islam»
Parola di Abdessamad Dialmy, sociologo marocchino ed ex professore presso le università di Fez e Rabat, che da oltre 30 anni studia la relazione fra Islam, sessualità e femminismo. Sostiene, inoltre, che ci sia l’impellente necessità di reinterpretare i testi sacri dell’Islam, ma in chiave femminista.
Le donne islamiche non sono necessariamente sottomesse alla propria religione: storicamente, sono state tantissime a lottare per i diritti femminili.
La nascita del femminismo islamico
I primi movimenti femministi, nel mondo arabo-musulmano, sono nati intorno alla fine del diciannovesimo secolo con la Nahdah (rinascita in arabo), movimento culturale e politico, definito anche “Modernismo Islamico“, i cui esponenti erano intellettuali che consideravano l’emancipazione femminile necessaria per la modernizzazione delle società arabe.
Un importante contributo alla causa, giunse da Tahar Haddad, studioso islamico tunisino che reputava errata l’interpretazione del Corano seguita fino a quel momento, in quanto negava alle donne la libertà e l’indipendenza. Sosteneva, infatti, che fosse necessaria una lettura del tutto nuova dei testi sacri, lettura che potesse finalmente conciliare l’Islam con il femminismo.
La poetessa iraniana Táhirih, fu invece la prima donna del “mondo moderno” ad intraprendere l’esegesi coranica, ovvero l’interpretazione del testo sacro.
Oggi è considerata un membro fondamentale della fede Bábí, religione autonoma separata da quella islamica che riconosce il Corano ma non la Shariʿah.
Táhirih rifiutò infatti la poligamia, il velo e ha lottato con forza per i diritti delle donne. Fu giustiziata dal governo, e secondo la tradizione, prima di morire pronunciò queste parole: Potete uccidermi quando volete, ma non potete fermare l’emancipazione delle donne.
Donne di spicco del femminismo islamico
Sono tante le donne che si sono impegnate nella lotta per il femminismo islamico: non possiamo non citare ad esempio Malak Hifni Nasif o Mayy Ziyada, anche se in questo caso si trattava di attivismi individuali.
E’ solo a partire dagli anni venti del Novecento che inizia il vero attivismo femminile organizzato.
Nel 1923 infatti, è Hoda Shar’awi a creare l’Unione Femminista Egiziana, nota per essere la prima organizzazione esplicitamente femminista del paese. Le donne che ne facevano parte lottavano con coraggio per il diritto all’istruzione, al voto e all’indipendenza.
Fu un gesto in particolare di Hoda e di Sizah Nadarawi, a far sì che l’UFE acquisisse notorietà e potere: le due donne, infatti, dopo aver partecipato al IX congresso dell’International Woman Suffrage Alliance, si tolsero il velo scendendo dal treno.
Il loro esempio ha portato ad una vera svolta nel femminismo islamico.
Nel 1941 Fatma Rashid fondò invece il Partito Nazionale Femminista, il primo partito di donne.
Ma la voce di spicco del femminismo islamico in Egitto, fu quella della psichiatra Nawal al-Sa’dawi: condannò duramente ogni pratica culturale che prevedesse l’oppressione, prima tra tutte la mutilazione genitale femminile. A causa delle sue proteste, perse il lavoro e fu persino messa in prigione.
Ultimamente, la voce del femminismo islamico è diventata più forte e presente, anche grazie ai social media.
Nel 2005 Amina Wadud, una donna afroamericana convertitasi all’Islam, ha persino guidato la preghiera del venerdì in una chiesa anglicana di New York a fedeli di entrambi i sessi.
E’ infatti proibito alle donne guidare la preghiera degli uomini: possono farlo esclusivamente in un gruppo di sole donne.
Amina Wadud è oggi una delle figure più importanti del femminismo islamico moderno, ed il suo gesto è stato persino emulato da un’altra donna, Asra Nomani.
Ovviamente, non possiamo non citare Malala Yousafzai, la ragazza pakistana che a soli undici anni ha denunciato la condizione delle donne islamiche e si è battuta per il diritto all’istruzione femminile, lottando contro i talebani.
Malala è attualmente la persona più giovane a cui sia stato conferito il Premio Nobel per la Pace.
“Letteralismo” ed interpretazione
L’Islam, la sua etica, si fondano principalmente sul Corano e sulla sua applicazione pratica da parte del Profeta Muhammad.
Si reputa che i musulmani in principio non si siano avvicinati al Corano con un metodo puramente «letteralista», ma abbiano fatto ricorso all’interpretazione per trarre regole e princìpi.
Tuttavia, in epoca moderna è riemerso l’approccio letterale alle scritture, un approccio senza dubbio radicale e fondamentalista. Chi lo adotta, è convinto di essere molto più “vicino” al testo sacro rispetto a chi ne trae soltanto interpretazioni meno semplici e più “vaghe”.
Purtroppo tale approccio affascina oggi un gran numero di musulmani, sfociando nel pericoloso islamismo radicale: la concentrazione sul significato letterale del testo, spesso causa una distorsione dell’immagine di Dio, e conduce alla totale mancanza di attenzione per i principi morali ed etici del “vero” Islam.
Principi, appunto, come la questione femminile. Difatti, sebbene la maggior parte dei testi sacri non ponga particolari problemi di interpretazione in tal senso, ci sono alcuni passi che possono essere travisati e letti come a favore della disuguaglianza e inferiorità della donna.
Amina Wadud, una delle più importanti studiose del Corano, sostiene infatti che la maggior parte del testo sacro non abbia nulla a che vedere con certe discriminazioni, e non sia affatto così discordante dal femminismo.
Il Corano sottolinea in più modi valori come equità, giustizia e uguaglianza tra uomini e donne.
L’Islam sostiene che uomini e donne, nonostante le differenze fisiche, godono di assoluta uguaglianza davanti a Dio. Il Corano e la Sunnah sono chiarissimi: il genere sessuale del fedele non influisce in alcun modo su ricompense e punizioni, nella vita successiva, soltanto la devozione differenzia gli individui tra loro.
“Invero non trascurerò alcun’opera di qualunque operante di voi, maschio o femmina che sia. Ciascuno di voi appartiene all’altro…”
La questione del velo
Il velo, è simbolo di sottomissione? La risposta è: non necessariamente.
Il velo può essere moltissime cose. Espressione della fede, tradizione, simbolo di appartenenza. Non esiste un valore assoluto, in questo caso: andrebbe interpretata la volontà del singolo.
Per alcuni, si tratta di uno strumento che sminuisce la donna, poiché implica che il corpo femminile rappresenti un elemento di disturbo alla vita pubblica e vada celato.
Per altri, uno strumento di protesta: un mezzo, per così dire, che contrasti il sistema occidentale, i suoi canoni. Coprirsi per affermare la propria identità.
A prescindere da ciò, costringere le donne a non indossarlo costituisce una limitazione della libertà e, di conseguenza, una forma di violenza.
Il femminismo occidentale, spesso tende a discriminare le donne musulmane. La rivendicazione del proprio corpo, il voler abbattere la sessualizzazione della donna, sembra loro in totale contrasto con l’utilizzo del velo.
Si tratta di un vero e proprio mansplaining verso le donne musulmane, giustificato dal vizio di presunzione secondo cui: il mio femminismo vale più del tuo.
Eppure, è l’autodeterminazione uno dei capisaldi del femminismo: ognuno è libero di essere, vestirsi, gestire il proprio corpo esattamente come vuole.
L’unico concetto che mette tutti d’accordo, è la necessità di spogliare il velo dalla sua interpretazione maschilista.
Sostenere chi desidera metterlo e chi combatte per abolirlo. Supportarci l’una con l’altra.
E lottare, soprattutto, affinché il corpo femminile non sia più una mera questione politica.
A testimonianza del fatto che le lotte femministe non hanno confini, né religiosi, né territoriali.