In quello che dovrebbe essere il mese del Pride, e dunque dell’orgoglio LGBT, non arrivano belle notizie dal mondo. È di poche ore infatti, la notizia della morta di Sarah Hijazi.
Sarah Hijazi aveva solo 30 anni ma ha deciso di porre fine alla sua vita con un gesto estremo. Conosciuta per essere stata un’attivista egiziana per i diritti umani ed LGBT, non ha retto al trauma in seguito alla sua incarcerazione ed ha deciso di suicidarsi.
“Ho provato a sopravvivere e ho fallito, perdonatemi. L’esperienza è stata dura e sono troppo debole per resistere, perdonatemi“. scrive rivolgendosi ai suoi fratelli.
Ma quali sono i motivi che l’hanno spinta a uccidersi? e chi è stata Sarah Hijazi?
Sarah Hijazi è cresciuta con l’idea della giustizia e dell’uguaglianza senza alcuna distinzione di razza, sesso o religione. Studia presso l’università della California completando studi in campi quali “Femminismo e giustizia sociale” “Diversità e inclusione sul posto di lavoro” e “Comprensione della violenza”.
Su Instagram si dichiara “Super comunista, super gay, super femminista”, infatti non ha mai smesso di lottare per gli ideali in cui credeva, neanche dopo la prigionia.
Tutto inizia nell’Ottobre del 2017 quando Sarah Hijazi si trova al Cairo e come tanti altri giovani sta assistendo al concerto di una delle band libanesi più amate in Egitto, i Mashrou Leila, forti sostenitori della comunità LGBT, nonostante in Egitto vi siano tutt’oggi molte repressioni nei confronti degli omosessuali.
Durante il concerto Sarah Hijazi sventolava orgogliosamente una bandiera arcobaleno ma il gesto è stato interpretato come un voler “diffondere l’omosessualità” ed è scattato l’arresto.
Trascorrerà due mesi in carcere, durante i quali subirà pesanti torture fisiche e psicologiche, sino al momento della liberazione su cauzione. Neanche la ritrovata libertà le sarà tuttavia di conforto. Se infatti, riesce a lasciare L’Egitto e a chiedere protezione internazionale in Canada, continuando a combattere attivamente per la liberazione degli attivisti ancora imprigionati nelle carceri egiziane, dall’altra vi sono le pressioni del mondo esterno, che la giudica per il suo orientamento sessuale e per il suo gesto, ovvero lo sventolare di una bandiera, che altro non era che un modo per sentirsi liberi di essere chi si vuole davvero.
Il dolore ed il ricordo degli abusi subiti – Sarah Hijazi è stata etichettata come trans e condotta in un carcere maschile dove è stata stuprata e torturata- sono stati più forti dell’istinto di sopravvivenza. Nel messaggio di addio, chiede perdono ai suoi fratelli dicendo loro di aver provato a sopravvivere fallendo, agli amici racconta che l’esperienza è stata troppo dura da poter superare, e rivolta al mondo, afferma che vi è stata davvero troppa crudeltà, ma lei chiede perdono.
Un gesto sicuramente disperato, ma comprensibile. Eventi come una prigionia, oltre che abusi fisici e verbali, possono incidere profondamente su un individuo, creando una crisi al suo interno, un trauma, che se non affrontato, non porta ad una guarigione, bensì alla ricerca dell’unico modo per scacciare via tutto quel dolore.
Sarah Hijazi ha dovuto trovare conforto nella morte.
Viviamo in un mondo dove neanche la musica si salva dai sistemi politici. I Mashrou Leila, che negli anni si sono distinti grazie al loro stile indie-rock e grazie ai testi delle loro canzoni che raccontavano la società libanese, hanno riscontrato blocchi per i loro concerti proprio per evitare che influenzassero i più giovani con pensieri provocatori e critici.
Viviamo in un mondo dove non si è liberi di esprimere le proprie idee. La storia di Sarah Hijazi riporta infatti alla luce anche quella di Patrick George Zaki, attivista egiziano di 27 anni che è stato arrestato con l’accusa di sovversione. La vicenda è arrivata anche in Italia, dove a Bologna (città nella quale Zaki lavorava) si è svolta una manifestazione in favore di una sua liberazione.
Anche se si lotta ogni giorno per i diritti umani e in particolare la comunità LGBT si batte per avere gli stessi diritti delle persone eterosessuali, arrivano notizie sconcertanti da più parti del mondo. In Polonia per esempio, è stata istituita una “Carta della famiglia” che tuttavia considera famiglia soltanto quella tradizionale. Lo scopo? proteggere i bambini dall’ideologia LGBT.
Sui social invece impazzano i commenti contro l’autrice di Harry Potter, JK Rowling che è stata accusata pesantemente per i suoi tweet e sembra che si stia perdendo il focus sul quale puntare.
Siamo tutti uguali. L’amore è amore in tutte le sue forme. Non si dovrebbe morire a 30 anni per il peso delle parole di persone dalla mente ristretta e con schemi mentali ben precisi di come le cose dovrebbero essere secondo natura.
Nel 2020 abbiamo ancora bisogno di celebrare la giornata dell’omotransfobia, siamo costretti a sentire la parola divieto davanti ai matrimoni tra persone dello stesso sesso e siamo davanti all’assurda convinzione che non si possa crescere sani se si hanno due papà o due mamme. Dovremmo evolverci, non regredire.
Dovremmo lasciare che l’amore vada in circolo nelle vene. Ed invece, c’è ancora bisogno di lottare per qualcosa che dovremmo avere di diritto: la libertà di amare chi vogliamo e di essere chi vogliamo.
“Digli che siamo ancora qui in piedi, digli che stiamo resistendo / Digli che abbiamo ancora occhi per vedere, digli che non abbiamo fame”, -Wa nueid (Noi andiamo avanti)- Mashrou Leila