Negli ultimi giorni in Italia non è passata inosservata l’iniziativa di un’azienda italiana, con sede a Venezia, che ha deciso di concedere un giorno al mese di assenza retribuita per le dipendenti che soffrono di endometriosi dolorosa o di dismenorrea, quello che viene chiamato anche “congedo mestruale”, senza che queste presentino una particolare documentazione medica
Una notizia che nel resto del mondo non desta così tanto scalpore dal momento che in molti Paesi questo è la normalità, mentre nel nostro Paese quello del congedo mestruale è ancora considerato un tabù o quasi, anche se qualche piccolo passo in avanti sul fronte legislativo è stato compiuto.
Congedo mestruale: in cosa consiste?
Quando si parla di congedo mestruale si fa riferimento ad un periodo, della durata in media di 3 giorni al mese, di assenza retribuita di cui possono usufruire quelle donne lavoratrici affette da ciclo mestruale doloroso che viene dimostrato clinicamente, con forti crampi e altri sintomi come nausea, vertigini e vomito.
Tale periodo di assenza vale indipendentemente dalla tipologia di contratto d’assunzione ( tempo indeterminato o determinato, subordinato o parasubordinato, a tempo pieno o parziale) e dell’ambito di lavoro (pubblico o privato).
Un diritto tutelato da una legge ad hoc già in diversi Paesi sia europei (come la Spagna, considerata un’apripista in Europa) che extraeuropei, come Giappone, Corea del Sud, Indonesia e Taiwan.
Congedo mestruale: e in Italia? Perchè è ancora un tabù?
Ad oggi, se in parte del resto del mondo l’assenza dal lavoro a causa di cicli mestruali dolorosi è considerato un diritto sacrosanto della donna sancito e regolato da una legge, in Italia è ancora considerato un “mezzo” tabù, in quanto una bozza di legge per tutelare tale diritto c’è, dal 2016, ma fatica a decollare e diventare legge vera e propria.
Questo a causa di divisioni a livello governativo, tra chi valuta seriamente la questione e chi la reputa una “scusa” per far sì che le donne lavorino meno o con meno impegno (dal momento che ci sarebbe la possibilità di gestire al meglio una situazione così delicata anche al lavoro), o che questo “diritto” possa aumentare il gender gap