Biografia
Liliana nacque a Milano, il 10 settembre 1930, da Alberto Segre e Lucia Foligno. Rimasta orfana della madre quando aveva appena un anno, crebbe con il padre e con i nonni paterni.
Poiché Alberto si dichiarava laico, l’idea di appartenere ad una famiglia ebrea non sfiorava neppure la piccola Liliana.
La consapevolezza iniziò quando, a causa delle leggi razziali del 1938, venne espulsa dalla scuola perché appartenente ad una famiglia ebrea.
Le persecuzioni diventarono poi sempre più intense, tanto che nel 1943 Liliana e suo padre (che aveva ricevuto numerose minacce causate dal suo dichiararsi apertamente antifascista) tentano la fuga verso la Svizzera.
Il piano però non ha successo, e Liliana venne arrestata, detenuta per sei giorni a Varese e poi rispedita a Milano, a San Vittore (qui si riunirà poi al padre), il 20 dicembre 1943.
Aveva appena tredici anni.
La deportazione e l’orrore di Birkenau
Finita nelle mani delle autorità, Liliana venne deportata dall’ormai noto Binario 21 della stazione di Milano Centrale: la mattina del 30 gennaio 1944 lei e suo padre furono trasportati insieme ad altri 700 ebrei nei sotterranei della Stazione e poi stipati dalle SS in alcuni vagoni bestiame.
Il viaggiò durò una settimana; dopo alcune soste, il 6 febbraio 1944 il treno raggiunse la stazione di Auschwitz, quindi proseguì sino a Birkenau.
Qui Liliana venne separata dal padre (che sarà ucciso poco dopo), poi immatricolata e tatuata con il n° 75190; spogliata e rivestiti con abiti leggeri, del tutto inadatti per ripararsi dal freddo, e calzature spaiate.
“Nel 1944, quando fummo deportati a Birkenau, ero una ragazza di quattordici anni, stupita dall’orrore e dalla cattiveria. Sprofondata nella solitudine, nel freddo e nella fame. Non capivo neanche dove mi avessero portato: nessuno allora sapeva di Auschwitz.” – Liliana Segre
Dopo 15 giorni, venne convocata insieme ad un centinaio di prigioniere ad un appello, ed assegnata alla fabbrica di munizioni Union di proprietà del gruppo Siemens, situata fuori dal campo nella zona industriale di Auschwitz.
Qui le consegnarono la divisa zebrata del campo e la trasferirono in una baracca adibita alle operaie della fabbrica nel campo di Birkenau.
Dopo circa un anno trascorso a lavorare nella fabbrica, però, Liliana e le altre operaie furono costrette senza alcun preavviso ad affrontare la marcia della morte: era cominciata l’evacuazione da Auschwitz verso la Germania a causa dell’avanzata dell’Armata Rossa.
Un’immensa fila di persone costrette a camminare al freddo, tra la neve, quasi senza cibo per giorni e giorni.
Liliana fu portata in un piccolo campo di concentramento, dove rimase per circa due settimane: qui il cibo era scarso e non esistevano servizi igienici.
Fortemente provata dal viaggio, debole e denutrita, sviluppò un infezione al braccio causata da una puntura d’insetto durante la permanenza ad Auschwitz. Si formò un ascesso che si estese in maniera preoccupante, tanto che Liliana, in preda ad atroci dolori, si decise ad andare all’infermeria: qui venne “operata” con un paio di forbici arrugginite e bendata con carta igienica prima di essere rimandata nella baracca con le altre prigioniere.
Liliana di quella giornata ricorda un episodio in particolare, episodio che non racconta quasi mai, la cui forza “è difficile da capire, soprattutto oggi”:
“Non avevo nulla, a 13, 14 anni, con un corpo scheletrito, ero sola. Non possedevo nulla. Un’infermiera terribile, una donna oscena, mi ha tagliato l’ascesso con le forbici, dicendomi ‘non svenire, altrimenti non so come vai a finire’, ed io non sono svenuta.
Son tornata nella baracca in una delle giornate in cui ero più triste, più disperata, e una prigioniera, che neanche conoscevo, non so di che nazionalità fosse, ha tirato fuori da un sacchetto lurido una fettina sottile di carota cruda e me l’ha regalata.
Quando non si ha nulla e ci si priva di una fettina di carota che può essere importantissima quando si soffre la fame, è fantastico. E’ un segreto che vuol dire ‘ho pietà per te’. Quando l’ho messa in bocca e ho sentito il sapore dolciastro, le ho detto grazie. Era tanto che non dicevo grazie.”
La liberazione
Alla fine dell’aprile del 1945, i tedeschi iniziarono ad evacuare il campo. Liliana si unì ad un gruppo di prigioniere francesi, ed insieme camminarono attraversando centri abitati, nutrendosi con la spazzatura dei civili tedeschi.
Dopo tre giorni di marcia si ritrovarono su una strada affollata: qui notarono civili in fuga, soldati tedeschi in ritirata e sorveglianti SS che si toglievano la divisa e indossavano abiti normali per mimetizzarsi e sfuggire al nemico.
Liliana capì di essere finalmente libera. Era il 1 maggio 1945.
Una volta in Italia, scoprì che anche i nonni paterni, nonostante i documenti che avrebbero dovuto salvarli, erano stati arrestati.
Anche la speranza di ritrovare suo padre, svanì, e Liliana cadde in una forte depressione. Dapprima si trasferì dai suoi zii, poi dai nonni materni, unici superstiti.
Ma si sentiva sola, diversa, non capita. Rifiutò per anni di parlare di ciò che aveva subito, quelle sofferenze non potevano essere raccontate, e ad ogni modo a quel tempo raramente si credeva che quegli orrori fossero realmente accaduti.
La sua salvezza fu lo studio: Liliana finì le scuole medie e si iscrisse al liceo classico.
Si rese presto conto di quanto la sua testimonianza potesse essere fondamentale, ed iniziò pian piano ad aprirsi, a raccontarsi, a descrivere l’orrore senza mai però seminare odio.
L’impegno politico
Nel 2018 Liliana Segre è stata nominata senatrice a vita dal presidente Sergio Mattarella.
Il suo impegno politico è totalmente volto alla testimonianza, al preservare e coltivare la Memoria, affinché questi orrori possano non ripetersi mai più.
Nel Giorno della Memoria, che quest’anno coincideva con il 75° anniversario della liberazione del campo di Auschwitz-Birkenau, Liliana ha sottolineato proprio questo:
“Mi batto da tanti anni affinché nulla vada perduto di tutto il dolore di così tante vittime. Nulla vada dimenticato dei fatti orribili e indicibili che sono accaduti ad Auschwitz e negli altri campi. Per questo credo che sia molto importante lo studio della storia, che va d’accordo con la memoria, perché senza storia non c’è memoria. E quindi, modestamente, faccio mie queste parole del Papa “se perdiamo la memoria annientiamo il futuro”. Le faccio mie perché le sento profondamente, dopo aver vissuto quel periodo che per me è indimenticabile e di cui, per forza di cose mi sono fatta testimone. Per tanti e tanti anni ho incontrato ragazze e ragazzi raccontando la mia storia, ma senza mai parlare di odio”.
Ha inoltre manifestato la sua preoccupazione sulla continua diffusione di sentimenti xenofobi, al giorno d’oggi:
“Io venivo considerata ‘diversa’, a causa delle leggi razziali fasciste, quando avevo 8 anni. E quindi so come ci si sente a essere considerati ‘diversi’, quando invece ci si sente così ‘uguali’. Quindi è ovvio che con grande preoccupazione seguo, da anni, questo riaffacciarsi di sentimenti odiosi che sono il contrario dell’accoglienza, che sono il contrario della fraternità. Sì, devo dire che sono molto preoccupata di questa onda, che non è anomala ma è il risultato della crisi economica, ma anche il risultato di insegnamenti molto sbagliati, di sovranismi e populismi che hanno fatto in modo che l’uomo e la donna comuni abbiano paura del loro vicino.”
Le minacce e la scorta
Liliana Segre oggi vive sotto scorta, poiché costretta alla protezione a causa delle minacce subite in seguito alla nomina di senatrice a vita.
Una donna sopravvissuta all’Olocausto, ai campi di sterminio, alla marcia della morte. Tesoro nazionale, bersagliata da insulti e minacce sui social network da parte degli haters da tastiera. Minacce che lei non vede, non essendo presente sui social, ma che son noti alle forze dell’ordine.
Ma sono stati proprio questi insulti che hanno portato Liliana ad essere la prima firmataria al Senato per la creazione di una Commissione parlamentare contro l’odio (per l’esattezza “per il contrasto ai fenomeni dell’intolleranza, del razzismo, dell’antisemitismo e dell’istigazione all’odio e alla violenza”).